Festival dei Popoli 63 – Incontro con Pierre-Yves Vandeweerd

Il regista di Inner Lines, protagonista di un omaggio del festival fiorentino, ha raccontato in un incontro la propria visione del cinema come strumento per filmare le lacerazioni dell’anima

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L’edizione di quest’anno del Festival dei Popoli ha dedicato una sezione Omaggio a Pierre-Yves Vandeweerd, proiettando i suoi film Inner Lines, For the lost e The eternals. Il regista è stato inoltre ospite in un incontro moderato da Daniele Dottorini, membro del Comitato di Selezione del Festival dei Popoli e da Luciano Barisone. Il regista ha preso la parola per raccontare della genesi del suo documentario più recente, Inner lines, girato in 16 mm.

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Per me Inner lines è parlare della mia concezione di film: il nomadismo. Questa idea di attraversare gli spazi in maniera libera. Per me c’è la possibilità di attraversare gli spazi, i tempi attraverso il cinema. Il cinema per me è vivere cose meravigliose che la vita quotidiana non ti dà. Il cinema ti permette di conoscere persone che nella quotidiana non incontreremmo mai. Durante le riprese mi sento preso da una forma di concentrazione, un’attenzione particolare alla luce, al suono che mi permette di percepire cose che credo non potrei se fossi un semplice passante. Il film parla dell’azzardo. Ero nell’Anatolia, nella Turchia orientale e da lontano vedevo scendere dei punti neri che si muovevano un po’ come ne Il deserto dei tartari. Mi sono avvicinato e c’erano dei fuggitivi arrivati in quelle zone attraverso messaggi mandati tramite piccioni viaggiatori che indicavano loro delle vie di passaggio. L’idea che al giorno d’oggi si possano usare ancora i piccioni viaggiatori in un mondo come oggi controllato è un potere così cinematografico e poetico. Scopro quello che costituisce Inner lines: voci di persone che per la prima volta si raccontano. Sono le voci che di cammini che attraversano le persone che cercano di salvarsi, dal dolore, dalla violenza. Dei cammini che sono nascosti ma che permettono di salvarsi”.

Il regista afferma di non volersi definire come filmmaker. Racconta dei suoi studi da antropologo e dei suoi lavori su alcuni rituali religiosi in Nigeria che lo hanno portato un giorno a prendere in mano la videocamera. Si accorse così di come fosse un altro linguaggio, un modo per andare a fondo nella realtà.

“Stavo facendo un film su mia nonna che non stava morendo ma era molto vecchia, quindi come in bilico tra la vita e la morte. Avevo cominciato a filmarla e c’erano cose che non mi soddisfavano, quello che percepivo non lo vedevo nel video. Ho utilizzato la pellicola e questo mistero, questa invisibilità si ritrovava come ‘incrostata’ nella pellicola e fu per me una rivelazione. Il toccare l’invisibile lo fa il cinema attraverso la pellicola”. 

Vandeweerd sottolinea più volte l’importanza di girare in pellicola, di come sia vantaggiosa rispetto al video. Arriva anche a definire camere come quelle a 16 mm e le super 8 come “un’estensione del nostro corpo”.

“La cosa che ho imparato di più è la luce. Non dobbiamo prendere la luce che ci suggerisce la camera. La luce è qualcosa che dà senso al film. Il film deve essere sensibile nelle sue espressioni, nella sua sensibilità va trovato il senso. Quando si fa un film bisogna decidere la luce, in caso aspettarla. Il cinema è anche un enorme lavoro di pazienza. I film di oggi sono in generale troppo verbali, troppo dimostrativi, si perde l’essenziale”.

Conclude l’incontro parlando dell’importanza che hanno i paesaggi nei suoi lavori:

“I miei film sono in Asia, Caucasia e c’è una solarità nei paesaggi. I paesaggi per me hanno il potere di accogliere le parole delle persone. Al mondo d’oggi nessuno ascolta, ognuno è preso dai propri problemi. I paesaggi hanno il compito di accogliere parole che non vogliamo più ascoltare. Diventano come una sorta di santuario”.

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