FESTIVAL DI ROMA 2009 – "A Serious Man", di Joel Coen ed Ethan Coen (Fuori Concorso)

a serious man
I fratelli Coen sembrano ormai aver imboccato, da qualche film a questa parte, un sentiero malinconico, ai limiti della spietatezza. Come in un grande sogno, o un grande incubo “trumaniano”, che riserva prima del risveglio l'uragano distruttore, noi spettatori, al cospetto della satira, dei messaggi cifrati, dell'inattaccabile universo radical degli autori, ci rendiamo conto sempre meno di quanto sia labile il nostro apporto personale alla strutturazione dell'immaginario visivo

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A serious manIl film è ambientato nel 1967 a St.Louis Park, Minnesota, città natale di Joel e Ethan Coen, e segue la vita in improvvisa caduta libera di Larry Gopnik, probo e bigio insegnante universitario ebreo abbandonato dalla moglie che gli preferisce il suo collega Sy Ablerman e beffato dai figli, Danny che gli ruba i soldi per lo spinello e Sarah che glieli sottrae per rifarsi il naso. Si aggiungono alle disgrazie un fratello idiota e parassita, uno studente che lo accusa di corruzione, e una sequela di strambi rabbini cui chiedere consiglio e sostegno spirituale al fine di recuperare la fede. Humor nerissimo e grottesco, che si concede un prologo in yiddish antico. I fratelli Coen sembrano ormai aver imboccato, da qualche film a questa parte, un sentiero malinconico, ai limiti della spietatezza, che rischia a volte essere pericolosamente innocuo, funereo e quindi fuorviante. Mirano, ogni volta di più, a scandagliare l'esistenza, rintracciando altrettanti archetipi assoluti dell'umano destino. Il cinema dei Coen è ormai una costellazione di personaggi eccentrici e curiosi che formano una corte dei miracoli tipica del mondo ebraico americano, in quest'ultimo caso, ma tipica della società contemporanea in toto. E sebbene i due registi cerchino questa volta anche una sorta di risposta di ordine mistico-religioso agli enigmi della vita, serpeggia in quest'opera, un sottile ma radicato pessimismo sulla natura umana. Il riso amaro, e talora beffardo, che la pervade è soltanto l'altra faccia, cioè la maschera, della disperazione. Cinema ossessionato dalla finzione e contraffazione, le sofisticazioni e le manipolazioni della vita adulterata. L'importante è il verosimile, l'artefattualità. Non solo siamo succubi degli oggetti, plagiati dai rituali che noi stessi abbiamo pensato e prodotto, ma fingiamo anche di credere alle simulazioni che pretendono di offrire l'equivalente di situazioni reali. In questo modo, però è il cinema stesso dei Coen, penetrato dall'inautentico, come l'ambientazione praticamente perfetta, le gag a orologeria, il non-sense sempre più devastante, che subisce un'alterazione originaria, che nasce già in partenza contraffatto. Come in un grande sogno, o un grande incubo “trumaniano”, che riserva prima del risveglio, l'uragano distruttore, noi spettatori, al cospetto della satira, dei messaggi cifrati, dell'inattaccabile universo radical dei Coen, ci rendiamo conto sempre meno di quanto sia labile il nostro apporto personale alla strutturazione dell'immaginario visivo e di come, per contro, sia appunto questa assenza reale, e presenza fittizia, una delle più singolari caratteristiche del nostro atteggiamento di fronte a questo cinema di presunta intelligenza e museale: quella che ne fa lo specchio inconsapevole d'ogni evento esterno. Succubi potenziali, sare(m)mo sempre al cospetto dei fratelli bisognosi di un'arte anticonformista, e magari anticomunicativa e “insensata”, capace di scandalizzare i benpensanti e sentirsi diversamente dotti.

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