FESTIVAL DI ROMA 2011 – "How to die in Oregon", di Peter D. Richardson (Extra – Concorso)


1994, in Oregon (Stati Uniti) viene per legalizzato il suicidio medicalmente assistito. Il documentario di Peter D. Richardson non ha interesse nello smembrare analiticamente la questione. Cerca subito il contatto intimo con il pubblico, dalle prime immagini. Un pugno nello stomaco; la prima sequenza angosciosa è solo il preludio di quella che sarà una vera e propria escalation di sofferenza

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1994, in Oregon (Stati Uniti) viene per legalizzato il suicidio medicalmente assistito. Gli unici due paesi ad aver abrogato prima tale legge erano stati la Svizzera e l’Olanda. Un argomento controverso di cui è difficile discutere senza tirare in mezzo il proprio credo religioso, oltre che le proprie convinzioni personali. Decidere in modo consenziente quando morire significa forse giocare a fare Dio? Togliere alla morte la componente imprevedibilità vuol dire essere in pieno controllo di se stessi oppure equivale davvero a levarsi semplicemente la vita? Si potrebbe fare tanta filosofia sull’argomento.
Il documentario di Peter D. Richardson però non ha interesse nello smembrare analiticamente la questione. Cerca subito il contatto intimo con il pubblico, dalle prime immagini di un anziano signore che se ne va circondato dall’amorevole famiglia. Potendo persino calibrare le ultime parole affettuose. Mantenendo quella dignità di cui ogni essere umano dovrebbe essere munito. E l’occhio della telecamere indugia drammaticamente sul corpo dell’uomo, mentre l’essenza dello stesso vola via, lasciando un involucro di carne sulla terra.
Un pugno nello stomaco; la prima sequenza angosciosa è solo il preludio di quella che sarà una vera e propria escalation di sofferenza. Nelle quasi due ore di montato, seguiamo principalmente le storie di due donne. Una di loro ha perso il marito per colpa del cancro. Aveva poco più di cinquant’anni. Il degrado fisico si è accavallato all’impossibilità di provvedere a se stesso. Sul letto di morte, ormai sfigurato dalla malattia, l’uomo riesce a strappare una promessa alla moglie. La donna dovrà battersi affinché ogni persona mentalmente stabile possa decidere di affrontare la morte con dignità.
La battaglia politica però è lasciata un pochino troppo sullo sfondo. La scelta è evidentemente quella di puntare, troppo banalmente, sull’effetto emotivo. Sembrerà poco sensibile, ma è troppo semplice ricavare compassione dal pubblico avendo quelle carte in mano. Spingere sulla reale valenza di una legge sacrosanta, quella sarebbe stata una mossa vincente, doverosa.
Il tutto degenera nella lunga e penosa agonia della seconda macrosezione di film. Il declino inesorabile di una donna deliziosa, madre amabile e moglie premurosa. Cancro allo stomaco. Un’operazione non basta a debellare il male; la belva torna più aggressivo di prima. L’insistenza nei racconti, nei dettagli più dolorosi della previsione di una dipartita ormai certa, rendono il film insostenibile.
La vittoria personale della prima signora, grazie alla cui campagna lo stato di Washington (alle soglie dell’elezione di Barak Obama) abroga la legge sulla morte legalmente assistita, è un unico dato storicamente epocale in un insieme troppo marcato di tragedie personali.
Peccato, perché sarebbe importante che la gente capisse a fondo la cosa. Lasciare questo mondo nel pieno delle proprie facoltà mentali, impedendo ad una bestia feroce che ti si mangia dentro di portarti via anche il più piccolo briciolo di amor proprio, è un diritto che chiunque dovrebbe avere. Non è una sentenza di morte, non c’è nessun obbligo. Il diritto di scelta, però, dovrebbe essere sacrosanto.

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