FESTIVAL DI ROMA 2011 – Il ritorno del gentiluomo zen, ovvero i due giorni di Richard Gere


Due anni dopo aver condiviso con il cane Hachiko il tappeto rosso del Festival Internazionale del Film di Roma, il gentiluomo brizzolato è tornato nella Capitale per ricevere il Marc’Aurelio all’attore. Partito da Nuova Delhi e atterrato a Roma, stavolta senza quadrupedi al seguito, Gere ha ricevuto la Lupa Capitolina dalle mani del sindaco Alemanno, per il suo impegno a favore del Tibet. Ieri si è intrattenuto due volte con il pubblico dell’Auditorium; in mattinata per la conferenza stampa, e in serata per presentare Days of Heaven

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Richard gere, Days of Heaven “Ora ho bisogno di un whiskey e di una sigaretta. Non mi ricordavo di aver fumato e bevuto così tanto. E nemmeno di essere così punk.”

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Così scherza Richard Gere dopo aver rivisto, insieme al pubblico romano, Days of Heaven di Malick, che non vedeva da più di trent’anni.

Ieri è stata la sua giornata. Per un Festival un po’ in sordina, un po’ arrancante, senza grandi eventi e soprattutto senza film davvero memorabili, l’arrivo di Gere si trasforma nel vero evento. E menomale, quindi, che c’è lui, con i suoi sessantadue meravigliosi anni e i suoi capelli ormai bianchi. Alla faccia del giovanilismo imperante e fine a sé stesso, ci pensa l’ex-ufficiale e gentiluomo zen a proiettare un po’ di luce e di cinema laddove gli sbiaditi e gettonatissimi vampiri adolescenti di Twilight non osano inoltrarsi.

Alla conferenza stampa di ieri mattina, a chi gli chiede cosa rappresenta per lui il Marc’Aurelio, risponde autoironicamente che spera non si tratti di uno di quei premi alla carriera “…che si danno quando la tua carriera è arrivata al capolinea, una cosa un po’ da dinosauri…vai a ritirare il tuo premio e il giorno dopo muori…”.

Claudio Masenza, che modera l’incontro, lo rassicura: il suo non è un premio alla carriera.

“ Allora posso stare tranquillo.”

 “Amo Roma e amo l’Italia. L’Italia – dice – è importante per me perché è qui che ho ricevuto uno dei primi premi della mia carriera; il David di Donatello, proprio per Days of Heaven. È un onore per me essere qui e ricevere il Marc’Aurelio, ed è un onore condividere la visione di Days of Heaven con voi. ”

Da allora Hollywood è cambiata molto. “Quando abbiamo girato Days of Heaven  erano gli anni ’70, era un periodo in cui gli Studios rischiavano, così come succedeva nel decennio precedente. Gli anni ’60 e ’70 sono stati anni in cui si investiva e si facevano i film che si volevano fare, anche se l’incasso non era sicuro. Ora è cambiato, è più difficile trovare finanziamenti, se non per i blockbusters.”

Se Hollywood è cambiata dagli anni, lo è anche Richard Gere, che all’epoca aveva ventisei anni. “Ma è passato così tanto tempo che nemmeno ricordo bene com’ero fatto. So solo che mia moglie ha visto il film e ha detto che all’epoca ero carino.”

 Si parla, prevedibilmente, di Zen, di buddismo e di Tibet e dell’impatto della ricerca spirituale sulla sua vita.

“Credo che ognuno di noi, in qualche modo, provi disagio verso il mondo. E anch’io da giovane mi sono sentito molto a disagio. Il buddismo mi ha colpito, ad un certo punto della mia vita, perché mi ha messo in relazione con un senso della realtà più profondo, mi ha permesso di rompere le bugie con cui ero abituato a vedere, e di capire che la realtà è amore, generosità, condivisione. Credo che sia questo il modo giusto per comprendere la realtà dell’Universo."

"Recitare per me è un lavoro, un lavoro molto bello, che mi piace, ma non ho aspettative particolari. È un lavoro che amo, ma voglio considerarlo con senso d’umiltà. A me interessa la vita. La mia famiglia è la cosa più importante per me, e allo stesso posto ci sono i miei maestri. Il cinema è un lavoro grandioso, ma non è il centro della mia vita. Ho avuto una società di produzione per un po’ ma mi sono accorto che era uno spreco d’energia, perché sottraeva tempo ai miei interessi. Non pianifico mai il futuro, di solito sono pronto ad accogliere quello che mi capita, a leggere le sceneggiature che mi arrivano e che mi piacciono.”

E sull’eventualità di una sceneggiatura sul Tibet risponde:

 “Ne ho lette tante. Ma non voglio fare un brutto film sul Tibet, o un film mediocre. La situazione ora è molto delicata, il Partito Comunista Cinese ha aumentato la tensione. Finora non mi è capitata la sceneggiatura giusta, ma sì, sono aperto a ipotesi di film sul Tibet.”

Non sembra voler sprecare ancora molta energia sul cinema, Mr. Gere, perché la sua energia la concentra altrove.

“Sulla mia famiglia e i miei maestri. Sono appena tornato da Katmandu, uno dei miei maestri è morto e sono stato al suo funerale. Passare del tempo con loro è una grande esperienza. La carriera è importante perché mi piace e perché mi dà la possibilità di viaggiare, di passare del tempo con le persone come voi. Ma è un lavoro, non tutta la mia vita.”

Sembra fare fatica a nascondere il fastidio quando gli viene chiesto se gli è mai pesato essere un sex symbol.

“Questa storia del sex symbol viene fuori solo nelle interviste e nelle conferenze. Non ha alcuna importanza nella mia vita, davvero. A me piace soltanto il mio lavoro.”

Per mantenere l’ottimismo in un momento difficile per l’economia mondiale come quello che stiamo vivendo “…dobbiamo svegliarci, smettere di vivere in questa specie di incubo che non è la realtà. Ho sessantadue anni, non ventidue, quindi mi rendo perfettamente conto di come stanno le cose. Però la realtà è il centro di quello che siamo, e la realtà è amore e generosità. La sofferenza può essere rimossa, perché non è quello che siamo veramente.”

Il disagio nonostante il buddismo, riappare anche per Mr.Gere, in un momento buio come questo. Ammette di non aver ancora visto Too big to fail, ma di aver amato molto Inside job, che tratta lo stesso argomento.

“È un film incredibile, come è incredibile che coloro che hanno creato la crisi non hanno perso il lavoro. È come essere stuprati dall’avidità, quello che mi sembra assurdo è proprio l’avidità e la mancanza di senso della responsabilità. Credo che la redenzione sia possibile per tutti, ma deve passare necessariamente attraverso l’ammissione delle proprie responsabilità.”

Tornando alla sua carriera o meglio al suo lavoro, come preferisce chiamarlo lui, la tecnologia è una cosa secondaria:

“Mi viene in mente di quando ho girato Cotton Club….quando? Non ricordo nemmeno l’anno esatto, era l’inizio degli anni ’80…comunque con Francis Ford Coppola scherzavamo sulla possibilità di fare film con il computer, cosa che all’epoca, nonostante ci fossero già gli effetti speciali, sembrava del tutto irrealizzabile. Ora si fa. Io credo, però, che la magia della recitazione non si possa creare al computer. Alla fine si tratta sempre di raccontare una storia: da quando eravamo uomini primitivi e ci riunivamo intorno al fuoco fino ad oggi, è sempre stato il racconto la cosa più importante. Credo che sia la potenza della storia, che in realtà è un principio molto semplice, il centro di tutto, e non la tecnologia, che è una cosa molto divertente ma relativa. Il viaggio umano dal buio alla luce è nel racconto."

Non ha rimpianti per i ruoli importanti non accettati e per le occasioni perse, perché “…mi è successo, ma poi ho fatto altre cose. Nella vita non sai mai cosa dovresti fare, ma è così che funziona. Vediamo così poco dell’enorme mappa dell’universo, siamo troppo vicini.”

E non esclude di poter lavorare, un giorno, per la tv, in un periodo in cui al cinema si investe poco: “La HBO ha una qualità molto alta, ottimi attori e ottimi registi, nulla da invidiare al cinema indie.”

Non ha ambizioni da regista, anche se dichiara di non esserne spaventato.

“Non credo che mi spaventi di per sé. Quello che mi spaventa è spendere più di un anno della mia vita su un progetto, quando ho altre cose importanti da seguire. Quindi per ora non mi interessa, ma chissà, forse un giorno.”

Paziente ai limiti della sopportazione davanti a chi gli chiede – durante l’incontro con il pubblico – consigli su come sfondare come attore, Mr. Richard, leggermente sbigottito, asserisce saggiamente che non c’è una strada uguale per tutti.

Allo stesso modo, a chi – non si sa bene perché – alla conferenza stampa gli chiede cosa pensa del lifting e se è interessato alla sua età a usufruirne, il paziente gentiluomo risponde laconicamente: “Semplicemente non mi interessa.”

Passare una giornata in compagnia di un anti-divo sessantenne senza botox né smanie (proprio lui) da gigolo, che si accompagna ad una moglie cinquantenne e non a squinzie minorenni,  è un privilegio che non capita tutti i giorni.

 

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