FESTIVAL DI ROMA 2012 – “Drug War”, di Johnnie To (Concorso)

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Drug War porta sino all’estrema vertigine, sino all’astrazione quella tendenza all’illeggibilità del cinema di To, quel corto circuito di situazioni, intrighi, capovolgimenti che finiscono per aggrovigliarsi su se stessi e richiudersi in un vicolo cieco dove i conti non possono tornare mai

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drug warForse davvero non riesci più a stargli dietro. Per ogni film che vedi, Johnnie To probabilmente ne ha già pensati, girati altri dieci. Eppure, il paradosso è che non avverti lo stacco. Semmai quel percorso coerente ti appare infinitamente più accelerato, lanciato a velocità folle verso il fondo cupo del mondo.

Dopo Life Without Principle e Romancing in Thin Air, To e Wai Ka-Fai (sempre più l’eminenza grigia della Milkyway) tornano all’action, o meglio all’idea di un action, ai vicoli ciechi di un genere ormai completamente azzerato nelle sue regole di riferimento e nelle traiettorie narrative possibili. E To conferma tutta la suprema versatilità della sua visione, la capacità di cambiare approccio, mutar pelle alle proprie immagini. Per tutta la prima parte del film, ambientato nello spoglio e freddo anonimato di una città portuale della Cina continentale, sembra quasi di riconoscere la durezza visiva di un film “realista” cinese, di leggere uno strano ibrido tra il poliziesco e il documentario o magari di vedere un action girato da Jia Zhang-ke ( e sarà forse un caso che Jia e To abbiano progetti in comune “spiazzanti”?). Eppure, il punto d’arresto rimane lo stesso. Johnnie To filma sempre e solo sparatorie, cioè l’acciaio dei proiettili, la linea dritta della fisica, i colpi mancati e il sangue delle ferite. Si tratti di una storia d’amore o di una crisi economica globale raccontata dall’interno (o dall’inferno).

 

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Drug War porta sino all’estrema vertigine, sino all’astrazione quella tendenza all’illeggibilità del cinema di To, quel corto circuito di situazioni, intrighi, capovolgimenti che finiscono per aggrovigliarsi su stessi e richiudersi in un vicolo cieco dove i conti non possono tornare mai. Tutti i giri del traffico di droga gestito da Tommy Choi disegnano una matassa di passaggi e sotterfugi inestricabili, più o meno come le operazioni finanziarie che fanno da sfondo a Life Whitout Principle. E davvero, qui come lì, tutto, ormai, ogni rapporto è ridotto a una transazione economica. Il mondo non è più attraversato da corpi, non è più messo in relazione dai mezzi di comunicazione e trasporto. I telefoni squillano a vuoto e i numeri che ci chiamano sono sconosciuti. I treni ad alta velocità arrivano sempre più tardi e le capsule di droga viaggiano nell’intestino. Il culo è il vettore più rapido? Il mondo è attraversato dagli affari. Trattative, denaro virtuale o reale, mercato globale pulito o sporco, dell’anima o delle cose. Per i patti tra gli uomini, ovviamente, non vale più una stretta di mano e via, una parola d’onore. Rispondono sempre a uno scambio di valore. Ma forse è sempre stato così, “dalla notte dei tempi”: una pecora per quanto grano? Tommy Choi mercanteggia con la polizia per una pena ridotta, accettando di “mettere alle strette” i suoi fratelli, quelli sordi, quelli muti, quelli strafatti e quelli lucidi, i piccoli e i grandi. Ma la polizia, caro detective Zhang, che metodi usa? Dov’è la giustizia se anche la pena, con buona pace degli illuminati, è assoggettata a una regola economica? Le si applicano sconti, aumenti, si patteggia. Al tasso di cambio cinese, un omicidio quanto vale?

Presi al centro di questo vortice affaristico, gli uomini conducono auto destinate a sbandare e a schiantarsi nelle vetrate di un ristorante o nel deserto di un ciglio della strada, di notte. Sono continuamente monitorati come titoli azionari, catturati da un’immagine che però non li tiene per mano, li perde ogni volta. Una sottile follia s'impossessa delle cose, congiura contro la coordinazione delle cose. Ma quel margine di libertà che potrebbe esser garantito dallo scollamento tra la prospettiva del controllo e l’effettivo caos del reale, è cancellato dall’invincibile tentazione doppiogiochista della presunzione, dal demone implacabile che costringe a definire strategie di “guadagno”, a tentare operazioni azzardate. Gli uomini non vanno da nessuna parte. Sono destinati alla terra di nessuno di un’autostrada. Si ritrovano imprigionati, inchiodati a un paio di manette, a un corpo già morto, legati al lettino della loro pena capitale, pena del capitale. Gli uomini sono fantocci. Tommy Choi, alias Louis Koo, altro attore feticcio di Johnnie To. Ma da quanti feticci è abitato il cinema di To? E zio Billie chi è? Parla solo attraverso una moltitudine di ‘marionette’, schegge di una personalità impazzita come il Mad Detective. E persino il detective Zhang interpreta una parte. È costretto a barare. L’impasse narrativa, ricercata, frustrante, somma del cinema di To, si rispecchia nell’impasse di quell’interminabile sparatoria finale, ben oltre ogni triangle, dove gli assalti da war movie e le traiettorie dei colpi disegnano un labirinto di cerchi concentrici che si stringono intorno al collo e alla caviglia di Tommy Choi. E tutto giunge all’evidenza di una condanna, di una pena non patteggiabile. Gli uomini non esistono. Più.

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