FESTIVAL DI ROMA 2012 – “O batuque dos astros” , di Julio Bressane (CinemaXXI)

o batuque dos astros
Cinema senza fatti di una storia inesistente… è questo il viaggio a Lisbona di Julio Bressane, regista brasiliano che allude a Fernando Pessoa e al suo desiderio di fare cinema. Sapere di Pessoa significa ucciderlo ancora una volta. Bressane sa bene che ogni opera è necessariamente imperfetta, e che la meno sicura delle nostre contemplazioni estetiche sarà quella di cui scriviamo. Ma tutto è imperfetto, non c’è tramonto così bello da non poterlo essere di più

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o batuque dos astrosCinema senza fatti di una storia inesistente… è questo il viaggio a Lisbona di Julio Bressane, regista brasiliano che allude a Fernando Pessoa e al suo desiderio di fare cinema, o quantomeno di seguirlo nel movimento. Pessoa, muore troppo presto o forse troppo velocemente, ma lascia le sue fantomatiche note per un thriller al buio, il buio della sala, il buio tra i suoi folgoranti frammenti di saggezza. Tra le schegge del suo cinema, Bressane ritrova Pessoa, la sua inquietudine. Il mito si nutre del quotidiano, della necessità di misurarsi con la realtà storica. Bressane si muove nell’immagine in cui il suo stesso fascino resiste alla trasformazione in figura. Il nostro piacere a guardare è soltanto una tappa, superata nel conflitto della figura. Tratti di esaltazione possibili anche nel tempo della tragedia: della percezione, al di là dell’intelligenza abituale del mondo cinematografico e di sé, di un’intelligenza disabituale, in cui anche il nuovo trova luogo e parola.

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Lo spazio scenico “rubato”, assorbito dall’arte figurativa, rende familiare (cinema ormai per amici, affiliati) e dicibile lo spaesamento, la sensazione di angoscia di un mondo che appare impercorribile, inabitabile, attraversato dal brivido di una possibile catastrofe incombente. È necessario per fare tutto questo, avanzare, perdersi nel particolare (di un bicchiere al bar, dinanzi ad una statua dello scrittore e poeta), nell’accidentale e dilatato attimo, nella sospensione estatica in cui spirito e corpo diventano indiscernibili, come unica voce che si eleva dal nero reame. Non più e solo affresco, la “cinemanzia” di Julio Bressane è arte magica di comprensione e captazione dell’illusione, è profezia che vede lontano, troppo vicino. Pessoa non esiste, Bressane se n’è impossessato. Pessoa è una statua, appartiene a Bressane, ecco la banalità. Niente legami tra cinema e parole, Bressane e Pessoa non hanno legami, neppure con noi stessi. Liberi da noi stessi e dagli altri, contemplativi privi di estasi, pensatori privi di conclusioni: un piccolo intervallo di 74 minuti concessa alla nostra estasi da cortile, affiliazione privata. Sapere di Pessoa significa ucciderlo ancora una volta. Bressane sa bene che ogni opera è necessariamente imperfetta, e che la meno sicura delle nostre contemplazioni estetiche sarà quella di cui scriviamo. Ma tutto è imperfetto, non c’è tramonto così bello da non poterlo essere di più, o brezza lieve che invita al sonno che non possa favorire un sonno ancora più sereno. Proprio come nei più immensi visionari del cinema, in Bressane agisce la furia di non riuscire a vedere la cosa o le cose ultime, di non riuscire a fermarsi, e insieme la voluttà obbligata di non trovare mai nulla su cui fissarsi, di cercar di mantenere libertà di visione sempre ipotetiche e ulteriori.

 

Come se uno "spirito dell'immaginario" tentasse di aleggiare oltre gli oggetti, attraverso gli schermi, senza i condizionamenti del set. Come Jean Vigo e Pessoa, Bressane sublima proprio la lotta del cinema e della visionarietà contro la morte dentro la morte, riscoprendo la sovrimpressione come atto d'amore tra immagini e parole. E perché la lieta fine non è lieta e non è fine… il cinema e la scrittura riconquistano la qualità fragile di essere sempre, esattamente di quel tempo, un po' fuori tempo, un po' fantasma, un po' memoria, omaggio di altre inquadrature di altre avventure impossibili, e altri gesti mille volte visti quasi uguali.  Ancora un eterno ritorno… 

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