FESTIVAL DI ROMA 2012 – "V Ozidanii Morja (Aspettando il mare)", di Bakhtyar Khudojnazarov (Fuori Concorso – Film d'Apertura)

Aspettando il mare è forse il punto d’arrivo della ricerca filmica di Khudojnazarov, perché unisce il riferimento costante al realismo magico di stampo balcanico (Kusturica è sempre un riferimento) alla fascinazione hollywoodiana nel pastiche di generi (western, melodramma, post-apocalittico). Un film innegabilmente zavorrato da pesanti simbolismi e da qualche ingenuità registica, ma ciò che colpisce è l’imponenza dello sguardo sul deserto assunto come decisivo alleato nella rincorsa alla vita

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aspettando il mareDi indubbio fascino il ritorno alla regia di Bakhtyar Khudojnazarov, autore di successi “festivalieri” anni ’90 come Luna Papa e Pari e Patta. Quello del regista tajiko è sempre stato un cinema di incontri e contaminazioni, umane e filmiche, di piccole epifanie visive che interrompono e deviano il corso della storia: proprio come l’imponente tempesta di sabbia che affonda la nave del capitano Marat e inghiotte l’intero equipaggio compresa sua moglie. Il mare era la vita per il piccolo villaggio disperso al confine tra Kazakhstan e Uzbekistan, ma dopo quella tempesta, come in una maledizione, si è ritirato prosciugando le sue acque e lasciando solo depressione e siccità. C’erano il mare, il pesce e la felicità…sono arrivati il deserto, la fame e la crisi: un’allegoria che evidentemente rimanda agli incubi globali odierni di natura sia economica che ambientale. Marat torna al villaggio dopo cinque anni di assenza, tra l’odio di chi lo considera responsabile della morte dei propri cari, covando un sogno folle: attraversare il deserto con la sua nave e riportarla in acqua, per cercare i suoi amici scomparsi, per ritrovare il suo amore perduto…

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Aspettando il mare è forse il punto d’arrivo della ricerca filmica di Khudojnazarov, perché unisce il riferimento costante al realismo magico di stampo balcanico (Kusturica è sempre un riferimento) alla fascinazione hollywoodiana nel pastiche di generi: l'amore per il western evidentemente richiamato in una sorta di Monument Valley dell’Est, con i cammelli al posto dei cavalli a trainare la nuova diligenza; il post-apocalittico con suggestioni quasi alla George Miller tra pirati di strada malvagi e camionisti dal cuore d’oro; e poi il melodramma nel costante inseguimento amoroso della bella Tamara (Anastasia Mikulchina) innamorata sin dall'infanzia di Marat.

Ovvio: questo è un film innegabilmente zavorrato da pesanti simbolismi (anche biblici) e da qualche ingenuità registica che allontana un po’ troppo l’immedesimazione spettatoriale, ma ciò che colpisce comunque è l’imponenza dello sguardo sul deserto assunto come decisivo alleato in ogni scelta compositiva. La traversata di Marat è una lenta riconquista dell’identità, un impresa dal vago sapore herzoghiano, con un Fitzcarraldo intento questa volta a rincorre la (sua) vita e non più la grandezza. Insomma: un film non del tutto convincente, forse troppo ambizioso, ma che trasuda in ogni inquadratura un sincero amore per il cinema e per il suo folle protagonista…

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