FESTIVAL DI ROMA 2013 – Atlas, di Antoine D'Agata (CinemaXXI)

Atlas, di Antoine d'Agata

Fa male agli occhi vedere una tale intimità sezionata ed esposta, ma una manifestazione così lucida e tormentata è solo un altro passo nel percorso di un annullamento che trova in ogni secondo sullo schermo una sua forma di purificazione. L’atto di vedersi con i propri occhi.

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Atlas, di Antoine d'AgataVi è sempre stato, da parte di Antoine D’Agata, una auto inclusione nei suoi scatti, lampi di carne pallida comparire fra i corpi delle prostitute e dei tossici ritratti dal suo obiettivo. Non è esente nemmeno dall’occhio del cinema, sottoposto allo sguardo di Lusena de Sarmiento e Schillaci nel documentario a lui dedicato The Cambodian Room.

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E ora che è il suo, di occhio, a posarsi dietro la macchina da presa, non sorprende questo ribaltamento di asse: Atlas è un vedersi visto, un occhio rivolto a se stesso, oltre la superficie in una discesa a senso unico. Vi è molto dei corpi svuotati sul tavolo anatomico ripresi da Brakhage in questo diario d’inferno che ritrae altri corpi, colmi d’un differente vuoto. Sembrano avere lo stesso peso, rinchiusi nell’inquadratura, spesso immobili, corpi martoriati e pervasi da una pietà rivolta all’annullamento. Il lavoro sull’inquadratura non si discosta dall’approccio fotografico, ottenendo però risultati opposti: se le foto di D’Agata sono immagini fisse possedute da un movimento febbrile e una tensione baconiana, le riprese statiche che compongono Atlas mostrano immagini in movimento di corpi immobili, in una dimensione compositiva  che ricorda da vicino la regia di Pedro Costa. Ma se i corpi ripresi dal regista portoghese sono costretti entro linee, porte e luce, in una dimensione architettonica insomma, i corpi di D’Agata sono rivoltati entro se stessi in un mondo di carne, alla ricerca di una distruzione del sé che non trova riscatto nemmeno nella parola, condannata a essere scissa dall’immagine. Ma è proprio in questa autodistruzione fisica ed estetica che le due forme di espressione, l’immagine e la parola, acquistano il massimo della potenza espressiva. I rari movimenti che colgono i corpi sono gli spasmi dell’orgasmo e dell’accoppiamento, irruzione vitale, o meglio necrofila, che rompe la nitidezza dell’immagine statica per farsi macchia, sporco che cerca di sottrarsi alla vista. Fa male agli occhi vedere una tale intimità sezionata ed esposta, ma una manifestazione così lucida e tormentata è solo un altro passo nel percorso di un annullamento che trova in ogni secondo sullo schermo una sua forma di purificazione. L’atto di vedersi con i propri occhi.

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