FESTIVAL DI ROMA 2013 – Fear of Falling, di Jonathan Demme (Cinemaxxi)
Non vi è un istante in tutta quest’operazione di matrice teatrale che non sia unicamente, pienamente e profondamente puro cinema. Un miracolo dello sguardo prima che del testo, una dichiarazione di appartenenza prima che di militanza: il cinema, ormai, possiamo anche soltanto raccontarcelo l’un l’altro a parole, immaginare di vederlo dall’altra parte della finestra, alzando gli occhi al cielo
Perché, alla stregua degli ultimi Polanski ma chiaramente con un procedimento di segno opposto, non vi è un istante in tutta quest’operazione di matrice teatrale che non sia unicamente, pienamente e profondamente puro cinema: per capirlo, basterebbe prestare attenzione al lavoro che, nella seconda sezione del film che pare sgorgare direttamente da quei sogni sospesi e galleggianti che si fanno nelle prime e candide luci dell’alba, Demme fa sulla luminosità e la cristallina bravura dell’esplosiva Lisa Joyce, ennesima giovane interprete benedetta dall’abbraccio del cineasta come in passato son state Melanie Griffith, Michelle Pfeiffer, Jodie Foster, Anne Hathaway…
Un miracolo dello sguardo prima che del testo, una dichiarazione di appartenenza prima che di militanza. Fear of falling è infatti con ogni probabilità ancora una volta (già lo si scrisse del vicinissimo capolavoro Rachel getting married) il più apertamente cormaniano dei film del figlioccio di Roger, e non soltanto per la velocità dichiarata della lavorazione, che diventa elemento aggiunto e delle recitazioni e delle immagini come le fantastiche sbavature in un rough mix, ma anche per una concezione di set, ambientazione, uso dello strumento-cinema e della fonte letteraria che viene dritta, per dire, dai Corman-Poe, qui con tanto di incendio morale risolutivo come quelli tanto cari al re della serie B (sempre lo stesso footage ritornante), anche se da Demme soltanto raccontato.
Ecco, il cinema, ormai, possiamo anche soltanto raccontarcelo l’un l’altro a parole, immaginare di vederlo dall’altra parte della finestra, alzando gli occhi al cielo (pensiamo anche a The Canyons, nonostante le apparenze quasi un film fratello di questo, o al Desplechin cannense…): quanti film attraversano le maglie delle parole che si narrano i personaggi di Ibsen/Gregory/Shawn/Demme? Quanti flashback, allucinazioni, visitazioni, set paralleli rimangono giusto suggeriti in quel camera car reiterato tra le chiome degli alberi, le “case per le persone” dove poter essere felici?
Tutto questo cinema non ha nemmeno più bisogno di essere girato…
Al solo pensarci, al film stesso vengono le vertigini: e a Demme non interessa davvero più di avere cinque righe di apprezzamento scritte dai mastri costruttori di Hollywood, per poter iniziare a sviluppare i suoi progetti in proprio dopo essere stato messo da parte per una vita intera – il sentimento di orgoglio che viene fuori da un gigantesco film pulviscolare come questo è quello che viene dalla convinzione che l’anziano, tirannico capomastro è destinato a cadere giù una buona volta, come espiazione per aver ammazzato i propri figli, fatto terra bruciata tutto intorno alla sua casa per potersi vendere i lotti a buon mercato, ed essersi costruito una torre per sfizio personale. Jonathan Demme sarà lì, quando succederà, ma non per piazzare la ghirlanda in cima: meglio, lo immaginiamo tra la gente a filmare la scena con una zoomata sballata e a scatti, quasi amatoriale. Ragged glory.