FESTIVAL DI ROMA 2013 – Glaucocamaleo, di Luca Trevisani (CinemaXXI)

glaucocamaleo

Trevisani intuisce che oggi il cinema è più che mai il terreno franoso delle forme d'espressione, trama precaria e inafferrabile di immagini che prendono vita e si dissolvono in un batter d'occhi. E perciò snoda il suo racconto non lungo le strategie umane della narrazione, ma attraverso le necessità organiche della materia

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glaucocamaleoIniziamo male, viene da pensare. Due camerieri, intenti a sgusciare ostriche, si concedono una pausa sigaretta e danno provo delle loro qualità intellettuali. L'identità, lo specchio e via dicendo. E il timore è di trovarsi fronte all'ennesima opera verbosa e pretenziosa. Ma è solo un depistaggio, interrotto bruscamente dal tuffo imprevisto di uno dei personaggi in una piscina. Ed è come se dalle propaggini del moto dell'acqua, si aprisse una nuova dimensione del film, fondata proprio sulla dinamica degli elementi e la loro interazione. L'uomo, inghiottito dall'abisso, scompare. O, almeno, questa sembra essere l'intenzione di Trevisani, il ridimensionamento dell'elemento umano a un accidente del paesaggio, il suo ritrarsi a segno verbale, che accompagni e rifletta, da una prospettiva lontana, quella costante trasformazione della materia, acqua, ghiaccio, fuoco, terra, che costituisce il movimento del mondo e dell'arte. Trasformazione in cui non si riconosce più un artefice individuato, un creatore consapevole e immobile. Il glaucocamaleo, mostro ibrido e proteiforme già nel nome, è il simbolo definitivo di questa rinuncia all'antropocentrismo. Perché nell'evidente indifferenza del movimento, il centro è un'utopia irraggiungibile.

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Il fatto che Glaucocamaleo sia stato uno dei primi film del programma CinemaXXI del festival di Roma, assume un valore programmatico, soprattutto se riletto in retrospettiva, alla luce del discorso portato avanti da direzioni diverse. Luca Trevisani, giovane e apprezzato artista, intuisce che oggi il cinema è più che mai il terreno franoso delle forme d'espressione, trama precaria e inafferrabile di immagini che prendono vita e si dissolvono in un batter d'occhi. E perciò snoda il suo racconto non lungo le strategie umane della narrazione, ma attraverso le necessità organiche della materia. E imbastisce la sua sinfonia visiva di spazi e oggetti mutanti, tra i ghiacciai del passo della Furca, le architetture organiche di Casa Saldarini, laboratori sull'energia solare, campagne e foreste e le coste dell'Oceano. Apre le porte a un'altra prospettiva, aliena, di cui si fa portavoce il biochimico premio Nobel Kary Mullis (non a caso rapito dagli alieni, secondo la sua biografia acida). Una prospettiva in cui la natura sembra assorbire, senza sforzo, l'intervento umano, riconnettere al proprio spazio e tempo l'artificio della costruzione. La natura è, insieme, sfondo e protagonista di una storia in perenne divenire, la storia di un perenne divenire. E, quando davanti ai nostri occhi, si materializza il punto di vista di un drone, davvero abbiamo l'impressione di assistere a un documentario fantascientifico. Un mostro ibrido che si affaccia sul mondo e sul cinema del futuro, dove intravedere altre straordinarie presenze.

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