FESTIVAL DI ROMA 2013 – I Am Not Him, di Tayfun Pirselimoglu (Concorso)

Bastano poche inquadrature per riconoscere nitidamente le coordinate filmiche che animano il cinema di Tayfun Pirselimoglu: tempi dilatati, rari movimenti di macchina, frontalità registica ostinata e (ri)cercata. Tra “doppi” e “incomunicabilità” si resuscitano precise atmosfere con innegabile maestria registica. Ciò che manca, forse, è l'emozione pura

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Bastano poche inquadrature per riconoscere nitidamente le coordinate filmiche che animano il cinema di Tayfun Pirselimoglu. Tempi dilatati, rari movimenti di macchina, frontalità registica ostinata e (ri)cercata. Poi ancora l’immortale tema del doppio e l’incarnazione di un’immagine speculare a noi che rimescoli e ridiscuta ogni identità. Insomma l’evocazione di atmosfere figlie di una stagione precisa, che dai fantasmi freudiani o dall’esistenzialismo di matrice sartriana portano ad Antonioni o Bresson al cinema. Senza dimenticare il riferimento non troppo nascosto anche ad Hitchcock e ai suoi cortocircuiti identitari.

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Si perché il protagonista di questo film, Nihat, è evidentemente un uomo che visse due volte. Impiegato in una mensa d’ospedale, depresso e attanagliato da un’intima solitudine, la sua routine viene scossa improvvisamente dalle attenzioni di una avvenente collega che provocherà un timido disgelo sentimentale. Ayse vuole cucinare per lui, sedurlo, scatenare i suoi istinti sessuali ed essergli perennemente accanto, il tutto senza apparente spiegazione logica. Sino a quando Nihat scopre di assomigliare in una maniera perturbante al marito di lei, ora in prigione. Da questa scoperta inizierà un vero e proprio percorso di trasmigrazione identitaria: Nihat diventa l’altro uomo. Ha una nuova vita, un nuovo lavoro, ma ha anche le vecchie solitudini… torna alla ricerca di Ayse (dopo la sua misteriosa scomparsa), o meglio dell’immagine di lei proiettata in un’altra donna.

Inutile inoltrarci in ulteriori ipotesi di interpretazione sul testo, perché quel che conta è sottolineare l’indubbia capacità di orchestrare un riuscito equilibrio tra narrazione e messa in scena, scatenando anche diversi quesiti sul perché di una così urgente attualizzazione. Nonostante questo, però, è difficile non avvertire come le enormi ambizioni del celebrato autore turco si arenino pian piano sulle soglie dell’intimo turbamento spettatoriale. Ossia di quella riattivazione di fantasmi privati che diventavano tempeste emotive in Hitchcock e si fermano un po' troppo nella contemplazione delle superfici in questo caso. La crisi profonda di Nihat (a proposito: straordinario l’attore protagonista Ercan Kensal) fa fatica ad appartenerci, fermandosi sul versante della pura stimolazione intellettuale. Resta la potenza di un paio di magnifici primi piani; restano tante fertili domande sul futuro/passato di Nihat: l’uomo che visse due volte.

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