FESTIVAL DI ROMA 2013 – Incontro con Eli Roth per "The Green Inferno"

eli roth

Arriva, fuori concorso, il nuovo film di Eli Roth, un horror truculento che riprende il genere 'cannibale' del cinema di Deodato. Un gruppo di giovani attivisti, animati dalle migliori intenzioni, vola in Amazzonia per salvare gli indigeni, ma diviene loro preda, in un crescendo di tensione e violenza. In conferenza stampa, Eli Roth è vulcanico e parla a ruota libera

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eli rothE arriva al Festival, fuori concorso, il nuovo film di Eli Roth, The Green Inferno, horror truculento che riprende il genere "cannibale" del cinema di Ruggero Deodato. Un gruppo di giovani attivisti, animati dalle migliori intenzioni, vola in Amazzonia per salvare gli indigeni dal disboscamento selvaggio, ma diviene loro preda, in un crescendo di tensione e violenza. In conferenza stampa, Eli Roth è vulcanico come da attesa e parla a ruota libera. Ad accompagnarlo, la protagonista del film, Lorenza Izzo.

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The Green Inferno è un grande omaggio a un certo tipo di cinema italiano, il cannibal movie. Cosa ti ha spinto in questa direzione?

Amo il cinema di genere italiano. Sono cresciuto con i film di Dario Argento, Lucio Fulci, Sergio Martino, Mario e Lamberto Bava. All'inizio non comprendevo le motivazioni del doppiaggio, ma poi ho scoperto delle regole stabilite ai tempi del fascismo, le motivazioni di quella tradizione e mi sono appassionato. Il fatto è che nessun altro cinema è in grado di raccontare la violenza come quello italiano. Pensando a film come Cannibal Holocaust, mi dicevo che quei registi dovessero finire in carcere, perché sembrava davvero che, per girare, avessero ucciso e commesso cose atroci. Poi ho conosciuto dal vivo Ruggero Deodato ed è davvero una persona amabile, che ha saputo coniugare l'estetica realistica di Rossellini con la violenza esasperata di Sergio Corbucci. Ha creato un nuovo genere di commistione tra lo sguardo finto documentaristico e il genere, aprendo le porte al cinema horror di oggi, da Cloverfield a Paramormal Activities. I giovani oggi amano questo tipo di film. E io volevo fare qualcosa per loro, anche per raccontare quest'assurda propensione tutta contemporanea di impegnarsi, condurre le grandi battaglie, salvare il mondo, standosene comodamente seduti a casa al computer o twittando da uno smartphone. Ecco, si è perso il senso delle cose reali. Perciò volevo fare un tipo di cinema pericoloso, che si mette in gioco in prima persona. Come mi ha insegnato il mio maestro Quentin Tarantino, che non guarda mai il monitor seduto su una sedia, perché questo tipo di cinema "gli affloscia il cazzo", come ama ripetere. Così siamo andato in Amazzonia, abbiamo superato tutti i confini, fino ad arrivare in Perù, tra gente che non sapeva neanche cosa fosse un film, lontana dalla tecnologia. Ho fatto vedere loro Cannibal Holocaust... E ora per loro il cinema è quello: persone che si mangiano tra loro.

 

E l'esperienza della protagonista? Cosa ha imparato da questo film?

Lorenza Izzo: Non sapevo di questi film. Li ho scoperti con Eli Roth. È stata un'esperienza straordinaria. Siamo entrati in contatto con questi popoli, che hanno cambiato completamente la mia prospettiva, rimesso in discussione i mie legami con la tecnologia. Naturalmente non si trattava di cannibali che giravano nudi e ammazzavano gente. Ma di tranquilli agricoltori, legati alle loro usanze e alle loro convinzioni. E ho imparato tante cose dalla loro vita semplice, ma molto più vera, densa della nostra.

 

In un'intervista recente hai dichiarato il tuo debito nei confronti del cinema di Herzog. in che senso?

Eli Roth. Non posso dire che il cinema di Werner Herzog abbia ispirato il mio film. Ma quello che intendevo dire è che, dal punto di vista formale, della fotografia, delle modalità di regia, ho tenuto in considerazione ovviamente Herzog,  i suoi film che ho avuto modo di conoscere quando studiavo cinema, come Aguirre furore di Dio, tra l'altro girato proprio in quei luoghi. Quando abbiamo individuato il posto logisticamente più adatto, mi è venuto in mente immediatamente quel suo modo di inquadrare i luoghi e di rapportarsi agli indigeni, perché sapeva coniugare alla perfezione le esigenze della narrazione con il realismo. Non volevo che il mio film replicasse, formalmente, il cinema di genere anni '70. Volevo un linguaggio diverso. Questo è un film sulla violazione e sulla perdita di controllo della civiltà rispetto al fascino e all'orrore della giungla. E Herzog, in questo senso, mi sembra decisivo.

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