Lombardo di nascita ma torinese a honoris causa, Ferrario da un po’ di anni a questa parte non fa altro che e riprendere una città che, attraverso il suo sguardo innamorato, è ogni volta più affascinante. Questa volta, però, raccontando le suggestioni intorno al 45° parallelo su cui è costruita la città, il regista evidenzia un’involuzione mostrando una certa stanchezza nella sua storia d'amore con la città.
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E’ da un’intera carriera che lo dice e, quest’ultimo film, presentato fuori concorso al Festival di Roma, non fa che riaffermarlo:
Il regista Davide Ferrario ama Torino. Lombardo di nascita ma torinese a honoris causa, Ferrario da un po’ di anni a questa parte, con qualche eccezione, non fa altro che raccontare e riprendere una città che, attraverso il suo sguardo innamorato, è ogni volta più affascinante.
Il regista, guardando un po’ ai libri di Giuseppe Culicchia o ai dischi dei Subsonica, ha sempre messo la sua città al centro delle proprie opere, arrivando alcune volte a costruire dei film solo per il gusto di scoprirne le particolarità ed esaltarne i luoghi meno conosciuti (si veda il caso Dopo Mezzanotte). Non stanco di questo continuo omaggio, Ferrario questa volta racconta il capoluogo piemontese attraverso le suggestioni nate intorno al 45° parallelo, quella linea immaginaria e ideale, su cui è stata costruita la città. L’idea di sfruttare questo espediente per mostrare qualcosa di nuovo, sulla carta, poteva essere anche affascinante, purtroppo non tutte le città (e soprattutto, non tutti i registi) hanno un Sacro GRA ai quali potersi aggrappare.
La luna su Torino, infatti, pur con una qualità visiva ricercata, non ha la forza per entrare nel cuore del proprio pubblico e trasmettergli qualcosa d’inedito. Scegliendo di seguire le vite di tre personaggi di finzione assurdi, con tutte le loro dotte ossessioni (Le operette morali di Leopardi, gli animali esotici, il cinema muto), Ferrario evidenzia un’involuzione a livello narrativo.
Sembra quasi che, concentrato unicamente sulla rappresentazione fotografica della città, il regista lascia in secondo piano la recitazione degli attori che, pur pieni di ottime intenzioni, sono appesantiti da una recitazione impostata e teatrale ai limiti del tollerabile e vengono lasciati a se stessi. Il risultato è un film non riuscito, a tratti anche fastidioso (il finale mette in luce un'evidente una povertà narrativa), che forse tradisce una vena di stanchezza nella storia d’amore tra regista e città.
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