FESTIVAL DI ROMA 2013 – La santa, di Cosimo Alemà (Fuori concorso)

La santa

I muri scrostati del meridione salentino non sono poi molto diversi dai volti dei suoi abitanti: rugosi, anneriti e annoiati. Quattro uomini, nella speranza di un riscatto economico, decidono di rubare la statua della Santa Vittoria, la patrona del paese, senza immaginare la violenza che un simile furto può scatenare.

 

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La santaI muri scrostati del meridione salentino non sono poi molto diversi dai volti dei suoi abitanti: rugosi, anneriti e annoiati. Il peso e nello stesso tempo la leggerezza di un piccolo paese chiamato Nebula è, come tradisce il nome inventato, una nebbia storica che copre gli occhi e che sospende il tempo. 
Quattro uomini, nella speranza di un riscatto economico, decidono di rubare la statua della Santa Vittoria, la patrona del paese, senza immaginare la violenza che un simile furto può scatenare. Non si tratta di semplice reazione, di dovere e voglia di protezione o di xenofobia – laddove qualsiasi forestiero è uno straniero che fa paura. Non è neanche vendetta, è molto di più: è una violenza che appare inspiegabile, che eccede le sue ragioni.
Cosimo Alemà, produttivo videomarker, ha già approfondito il tema del Male nel suo film precedente At the End of the Day, dove un gioco faceva finire i protagonisti in un inferno tutto terreno. Il regista si propone e si impone nel panorama italiano come qualcosa di nuovo: se da un lato si inserisce all'interno di alcune strade di genere e di caratteri tipicamente nazionali (il western, il paese arretrato, il fuggiasco, la religiosità che sfuma nella superstizione), dall'altro lo rimescola e se ne fa nuovo artigiano, ad esempio scegliendo delle musiche apparentemente fuori contesto (Gianna Nannini o i Der Noir), o una moralità alternativa dove la morte si consuma sotto gli occhi dello spettatore.
E tuttavia la potenza delle immagini e la crudeltà non viene portata fino in fondo perchè si intromettono le spiegazioni, le sedute psicologiche (o confessioni che siano) in cui si rivela la bontà del cattivo che in alcuni tratti risulta banale. Tante frecciatine sono rivolte al clero, alla chiesa e al modo in cui educa i giovani come se fosse doveroso in un film con una trama simile. Se Alemà si fosse fermato alla violenza, all'azione e all'alta tensione senza tifare tutto sommato per un'umanità buona, forse il film avrebbe raggiunto un livello superiore. 
In più, non manca una tonalità di grottesco, che, seppur in alcuni casi drammaticamente divertente, non ha niente a che fare con una certa variante comica che si può trovare, ad esempio, in un film come il Il santo patrono di Bitto Albertini.
Buona è la prova degli attori, anche di quelli che hanno piccoli ruoli:  interessante è, infatti, la caratterizzazione dei personaggi minori, al punto che il film nella parte centrale diventa un incrocio di microstorie tutte avviate e risolte in breve tempo e in modo incisivo, dei quadri che arricchiscono un paesaggio lucidamente folgorante e inquietante.
 

 

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