FESTIVAL DI ROMA 2013 – Uvanga, di Marie-Hélène Cousineau e Madeline Piujuq Ivalu (In concorso/ Alice nella città)


La nuova storia di una nuova famiglia si compone e si accontenta di piccoli ma autentici gesti, facendo di questo racconto antropologico una favola contemporanea e universale. Uvanga è l’appartenenza, è il flusso imprevedibile della vita animata da azioni e reazioni “semplicemente” umane

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Se con Atanarjuat il corridore Zacharias Kunuk aveva presentato la terra lontana dell’Artico canadese vestita di leggenda, le due registe di Uvanga  Marie-Hélène Cousineau (fotografa di scena del citato film di Zacharias Kunuk) e Madeline Piujuq Ivalu entrano nell’intimità quotidiana della comunità di Igloolik, attraverso gli occhi delle nuove generazioni. In un mare di ghiaccio specchiato nel cielo terso, un uomo o  forse un fantasma mostra le spalle alla telecamera, immerso nel parlare del vento. Il bianco preludio alla storia del giovane Tomas (Lukasi Forrest) e di sua madre Anna (Marianne Farley) che dopo quattordici anni ritrovano la famiglia dello scomparso padre e compagno Caleb. Tomas, “il ragazzo della città” cresciuto a Montreal, approccia alla scoperta delle sue origini inuk con composta avidità, cercando di riconoscersi negli occhi della nonna Sarah (Madeline Piujuq Ivalu) e nel sorriso del nonno Silessie (Samson Kango) che vede per la prima volta. La paura si scioglie lenta, intimidita dal tenero abbraccio col fratello Travis (Travis Kunnuk) poco più grande di lui, che diventa guida e compagno di avventure. Proprio questa complicità fraterna si dimostra il pilastro che sorregge l’intreccio di storie e persone, eludendone la frantumazione: come in ogni famiglia, anche in quella allargata di Tomas si accavallano dissapori, gelosie e rancori che vengono a galla dalla luce liquida di un giorno interminabile.

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La parte più umana di quello che Anna stessa definisce “il paradiso” viene filmata dalle registe con un orientamento quasi documentaristico, come a voler entrare in punta di piedi dentro ogni casa di quest’isola, senza perderne alcun dettaglio. Nei nidi colorati e consumati da piccole tragedie si incontrano lingue e costumi diversi, raccolti in una Babele ghiacciata, dove la compostezza delle immagini subisce continue esplosioni emotive. L’isola mostra il suo paesaggio innevato, ritratto da una fotografia suggestiva che immortala carne, sangue e natura. Uomini, animali e terra sconfinata. Un limbo dove il tempo lineare è contrastato dal volere umano che tenta disperatamente di ricongiungere il presente col passato. La nuova storia di una nuova famiglia si compone e si accontenta di piccoli ma autentici gesti, facendo di questo racconto antropologico una favola contemporanea e universale. Uvanga è l’appartenenza, è il flusso imprevedibile della vita animata da azioni e reazioni “semplicemente” umane. 

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