FESTIVAL DI ROMA 2014 – Gli angeli della controriforma

angels of revolution
Tra le polemiche si perde di vista il punto centrale della questione. I film, le scelte fatte, la loro qualità, la coerenza dei discorsi portati avanti, la loro capacità di dialogare con il presente e il futuro del cinema e con la realtà, di fare il punto sui nuovi linguaggi e aprirsi alle strade della sperimentazione. Resta il fatto che questa edizione “menomata” del festival ci ha regalato comunque grandi momenti e più di una sorpresa

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angels of revolutionSiamo alla fine. Si è consumato l’ultimo atto del Festival Internazionale del Film di Roma dell’era Müller, dopo tre anni spesi nel tentativo, disperato forse, ma quanto meno esaltante, di restituire una credibilità progettuale a una creatura aliena, mostruosa, partorita dalla mente di un Frankenstein politico che ha ragionato solo in termini di interesse economico e spendibilità d’immagine. È stata un’edizione, quest’ultima, partita già con il piede sbagliato, massacrata da alcune folli scelte organizzative. Si è deciso di fare a meno della giuria, per ricorrere al meccanismo astruso del voto popolare (che di fatto ha tolto qualsiasi interesse, già di per sé labile, alle competizioni e ai verdetti). Si è imposta la drastica riduzione dei film in programma, con la soppressione di quella che era stata, senza dubbio, la sezione più interessante e fuori dagli schemi dei primi due anni della direzione Müller, CinemaXXI, maldestramente rimpiazzata da un surrogato affidato alle cure di Wired. Sono stati deliberatamente troncati i rapporti con la stampa estera, che, invece, nelle ultime edizioni, aveva finalmente guardato con interesse a Roma. Tutte scelte "istituzionali" giustificate con la necessità di tagliare i costi del festival. La mole di danaro dietro l’operazione rimane, comunque, alta. Ma chi si diverte a snocciolare cifre, ripetiamo, potrebbe anche scavare più a fondo sul peso istituzionale e politico che grava su questo bilancio.

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Quanto poi alla solita discussione sulla vocazione della manifestazione, festa o festival, basterebbe pensare ai due film più straordinari di quest’edizione (per chi li ha visti), Angels of Revolution di Aleksej Fedorchenko, e Haider, di Vishal Bhardwaj, per liquidare la questione. Uno ci racconta lo scollamento tra l’avanguardia intellettuale e il popolo, mostrando però la forza dell’immagine come fascinazione magica, l’altro, con la sua potenza di blockbuster esplosivo, ci dimostra come il concetto di cinema popolare sia labile, vada sempre rimodulato a seconda dei casi, delle latitudini, dei tempi. E fa sorridere la schizofrenia di chi lamenta l’eccessiva cerebralità di alcuni film, per poi snobbare alcune scelte senza dubbio trasversali, come l’ultimo Ficarra e Picone o i tanti incontri che hanno caratterizzato quest’edizione a cominciare da quelli con Tomas Milian e Kevin Costner.

 

the knickCome al solito, tra le polemiche, si perde di vista il punto centrale della questione. I film, le scelte fatte, la loro qualità, la coerenza dei discorsi portati avanti, la loro capacità di dialogare con il presente e il futuro del cinema e con la realtà, di fare il punto sui nuovi linguaggi e aprirsi alle strade della sperimentazione. Se di festival (o festa, fa lo stesso) di cinema si deve trattare, allora è questo che conta. Altrimenti, per divertire “le masse”, tra feste farine e forca, andrebbe bene anche la sagra della trippa. E parlare dei film non vuol dire – quanto meno non soltanto – parlare di biglietti venduti o di mercato. Come se un festival dovesse essere di per sé una vetrina, il volano dell’industria, una fiera. È solo una parte del problema, che semmai riguarda produttori, distributori, figure, tra l’altro, che hanno sempre il loro peso di responsabilità sulle storture del mercato e, chiaramente, nella determinazione di alcune scelte artistiche di una manifestazione. Questioni che al pubblico interessano solo marginalmente. 

 

biagioEd ecco, allora. Resta il fatto che questa edizione “menomata” del festival ci ha regalato comunque grandi momenti e sorprese, pur se disseminati in una programmazione per forza di cose più confusa, meno coerente. Fedorchenko e Bhardwaj su tutti, vertigini che s’imprimono nella memoria. Con loro, l’incredibile The Knick, la serie Tv firmata da Soderbergh, che sembra finalmente riunire in un colpo solo le due grandi traiettorie del suo cinema, la velocità indifferente, produttiva e narrativa, e la capacità di cogliere l’emozioni nei buchi neri, nelle pieghe vuote del tempo. E poi la sublime eleganza di Os Maias di João Botelho, gioco apparente che squarcia i fondali dipinti della finzione per toccare il segreto della storia in movimento. Da Resnais a de Oliveira. E, ancora, molte delle cose viste in Mondo genere, a cominciare dal folgorante esordio di Ana Lily Amirpour, A Girl Walks Alone at Night, squarcio formalista politico e generazionale, che sembra uscire dalle pieghe oscure di Rumble Fish. Per finire con la cupa visione sull’immagine 2.0 di Nightcrawler di Dan Gilroy, lucido seppur a tratti troppo scoperto nel suo discorso.

jia zhang-ke e walter sallesCerto, sono mancate le star di Gone Girl – film che non ho amato molto, pur riconoscendone i motivi d’interesse – ma è bastato il sommo padre Costner, a regalarci con Mike Binder un’altra umanissima ferita, tra i bianchi e i neri del cuore, le sue contraddizioni e i suoi slanci. Love, reign over me. Con buona pace dei critici austeri e ideologizzati. Un’umanità che ritroviamo anche nel Richard Gere di Time Out of Mind, il vecchio divo che mette in gioco se stesso, la sua storia, nonostante la radicalità estetizzante dello sguardo metropolitano di Moverman. E nei racconti commoventi di Marco Risi e Pasquale Scimeca, che pur tra le difficoltà, le ingenuità e le incertezze, consegnano due film di una sincerità disarmante, da far impallidire molte delle grandi bellezze del cinema italiano. Tre tocchi e Biagio non avranno vita facile, al pari di Largo baracche, Roma Termini, Escobar, altri film interessanti (e torniamo al mercato!)… ma sono schegge fuori dai canoni che ci toccano dal profondo. Un po’ come i diciassette minuti di Ore 12 di Toni d’Angelo o Já visto jamais visto di Andrea Tonacci. Segni di una vitalità irriducibile del cinema, di chi lo fa, lo pensa, lo guarda. E, allora, diviene davvero centrale, quasi una sorta di dichiarazione l’omaggio che Walter Salles fa a Jia Zhang-ke. Una lezione di umiltà, di apertura al confronto, di pudore e di amore per le immagini e le persone vive, concrete, di carne e ossa, per i film e tutte le storie che si portano dietro. Si può ripartire da quelle immagini, per costruire il futuro.

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