FESTIVAL DI ROMA 2014 – La foresta di ghiaccio, di Claudio Noce

Neve, neve ovunque. Neve fino alle ginocchia, il camminare è incerto e goffo. Un continuo inabissamento di ritmo e narrativa dove, in un costante ammiccamento verso il thriller contemporaneo, tutto trova il suo culmine nella gratuità di una serie infinita di inquadrature in slow-motion. Espediente a cui è affidata indistintamente la funzione di moto, tensione e stasi, generando così una cadenza perfettamente noiosa.

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In un paese sulle Alpi, al confine tra Italia e Slovenia, arriva il giovane Pietro (Domenico Diele), incaricato di riparare un guasto alla centrale elettrica che provoca continui blackout. La zona però, nasconde terribili segreti, e la strada di Pietro si incrocerà presto con quella dei due fratelli (Emir Kusturica e Adriano Giannini) che gestiscono la diga e della zoologa Lana (Ksenia Rappoport) in cerca della verità su un misterioso assassinio.

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Chissà, forse Claudio Noce per La foresta di ghiaccio aveva in mente l'immobilismo programmatico delle inquadrature di Nicolas Winding Refn. O durante le stesura della sceneggiatura avrà pensato un attimo a Eastern Promises di David Cronenberg. Probabilmente, per restare su spunti recenti e non scomodare i mostri sacri, avrà anche dato uno sguardo a Slevin – patto criminale, di Paul McGuigan , per uscire dall'impasse narrativa durante il montaggio del finale. Sì, i riferimenti cinematografici (a voi decidere se grandi o meno) ci sono tutti, e ricostruire la mappa creativa che Noce ha seguito nella realizzazione del film può essere una sfida divertente.

 

L'interesse verso il film, però, finisce qui. Manca una sincerità di fondo che unisca in un unico grande puzzle le immagini/schegge (impazzite) che compongono la pellicola. Il paesaggio innevato delle Alpi al confine tra la Slovenia e l'Italia, impressiona nella sua ferocia, ma prende il sopravvento sulla storia e più che un'ambientazione diventa una copertura che non lascia il minimo respiro, ogni spazio è annullato.

 

Alla fine, rimane ben poco. La storia dell'apparentemente normale Pietro, viene subito falsata dal didascalico prologo (troppo facile qui pensare a Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino) che non solo condiziona le aspettative dello spettatore ma impone un finale raffazzonato e, rispetto alla linearità narrativa di tutto il resto del film, incredibilmente confusionario. Qualsiasi spunto narrativo secondario alla costruzione del “colpo di scena” finale, è completamente ignorato. Terra di confine, profughi, etnie a confronto, uomini-merce, uguaglianza di genere, tutto viene sepolto sotto metri di neve.

 

Neve, neve ovunque. Neve fino alle ginocchia, il camminare è incerto e goffo. Nei piedi che sprofondano nel bianco più totale, forse l'immagine che più rappresenta il film. Un continuo inabissamento di ritmo e narrativa dove, in un costante ammiccamento verso il thriller contemporaneo, tutto trova il suo culmine nella gratuità di una serie infinita di inquadrature in slow-motion. Espediente a cui è affidata indistintamente la funzione di moto, tensione e stasi, generando così una cadenza perfettamente noiosa.

 

Noce, con La foresta di ghiaccio non osa nulla e sceglie la strada più semplice, quella già collaudata in precedenza. Cerca in tutti i modi di fare un film che non sembri italiano, e l'ambientazione al confine è solo il più palese dei sintomi. A forza di seppellire qualsiasi impulso creativo, di rimuovere lo sporco e il potenzialmente pericoloso (per il regista, per i personaggi e per noi), arriva a mostrarsi in una forma di una geometricità tale da risultare privo di qualsiasi interesse. Dopo il ghiaccio, il blackout: a spegnersi completamente non è solo la centrale elettrica sulla diga, ma il cuore del film stesso. E con lui, il nostro sguardo.

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