FESTIVAL – Tribeca-Milano

Piccoli lampi di Manhattan a Milano, tra entusiasmi e indignazioni all'italiana. Ma grazie a Wong Kar-wai, nel 2046 avremo dimenticato tutto

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L'organizzazione casareccia stride con l'indirizzo minimale della maison Prada. Per non parlare delle semi-risse alla blindata proiezione serale e dei "Tu passa pure Fulvio, vieni". Ma poi pensiamo che fà tanto Italia, questo Tribeca in Milano che si è fatto notare soprattutto per le reazioni stizzite di fronte al rifiuto di De Niro di prendere cittadinanza italiana. Per non parlare dell'Ambrogino d'oro, che il taxi driver si suppone nemmeno sappia cos'è. Ci scordiamo anche di questo, e pensiamo ai film.
Qui il discorso cambia, la selezione è eclettica, l'atmosfera cordiale. Prima e dopo qualche proiezione è possibile incontrare autori o interpreti e colpisce la timidezza di protagonisti e pubblico. Che in un inglese dolcemente maccheronico si lascia andare ad un "and now sing!" rivolto a Niki J. Crawford, cantante-attrice in "KIller Diller". Questa pellicola indipendente, tratta dall'omonimo romanzo di Clyde Edgerton, è la versione acustica di "The commitments". In tono sommesso, segue una band musicale in fieri, messa in piedi da un manipolo di criminali minorenni e un giovane autistico genio del pianoforte. La band è anche schizofrenica: di giorno sono "I nobili paladini del verbo", di notte la "Killer Diller blues band". Se non fossimo dalle parti del Missuri e delle chiese battiste, si parlerebbe a ragione di "christian rock", dato che è grazie a un invasato salvatore di pecorelle smarrite che il carcere, sempre incombente per il simpatico protagonista, si fa da parte lasciando gli scalcagnati musicicti alla casa-famiglia dove dormono, pregano e cantano inni al signore. Senz'ombra di blasfemia, né di imbarazzante religiosità, vediamo in campo degli autentici "buoni" che riscattano loro stessi e l'amico autistico dall'isolamento cui è costretto dal padre sporco brutto e cattivo. Girato in onore e compagnia di Taji Mahal e con una colonna sonora strepitosa, "Killer Diller" si nutre di simboli semplici: un pomodoro (antidoto biologico agli attacchi del giovane disturbato), una chitarra d'epoca, un palcoscenico, una macchina fiammante e invisibile (se non agli occhi del co-protagonista che passa il tempo libero sgommando e mimandola alla perfezione). Non manca la morale finale dove il giovane autistico abbandona a macchina immaginaria, scopre la sua identità sociale e il padre si fa schiettamente buono. In tutto questo il film d'esordio di Tricia Brock mantiene una genuinità impeccabile, a partire dal protagonista, un James Dean che non ha bisogno di auto-ironia perché accoglie con tenerezza quella del pubblico. Difficile alla fine non ricavarne un sorriso o una lacrima: piccolo miracolo in tempi in cui "mission" è un termine aziendale.

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Il film-evento della selezione -oltre al greco "A touch of spice", popolarissimo in patria- è "Green hat". In Cina si dice che un uomo tradito è un uomo con "il cappello verde". L'inizio è un caledoscopio di simbologia cromatica: cappello verde, sciarpa verde (antico simbolo di chi lavorava in un bordello), libretto rosso. Segue un breve monologo sguardo-in-camera quasi alla Ciprì e Maresco, con riflessione sull'idea, tutta occidentale, di "film d'arte". Poi iniziano i film: due, con un passaggio di testimone degno di "Hong Kong Express". Il primo insegue "Bullet in the head" con ambizioni più poetiche e raffinate. Si tratta di tre amici-fratelli che organizzano il colpo grosso ai danni di una banca, ma il loro profilo è dei più elegiaci: donne amate da raggiungere in America,
cuccioli di cane liberati un attimo prima della sparatoria, promesse di rivedersi dopo un anno, abbracci virili. Finisce male, e finisce la vita di uno di loro davanti a un poliziotto. Seconda parte: interno della vita del poliziotto. Sesso, impotenza, famiglia, matrimonio, depressione, follia: lo scenario è diversissimo, il timbro si fa meno autoriale e rallenta il ritmo. I due film sono diversissimi ma hanno in comune la partecipazione del regista-sceneggiatore e il "green hat", la perdita dell'oggetto amato che spezza l'equilibrio degli uomini protagonisti.  Due i premi al Tribeca 2004: miglior film e miglior regista di fiction. Tuttavia l'impressione è di una densità tematica eccessiva ed insistita, lontanissima dalla vecchia pellicola di Wong Kar-Wai citata qualche riga più in alto.

Ed è Wong il vero protagonista di questo scampolo di New York a Milano: a lui l'onore di chiudere l'evento e far dimenticare gli imbarazzi sollevati da De Niro. Missione compiuta: la première di "2046" è affollatissima e calorosi gli  incontri pomeridiani che precedono (perché?) il film. Wong si presenta in compagnia degli immancabili occhiali scuri e del suo attore feticcio Tony Leung. "Il mio compagno critico e uno dei miei migliori amici", lo definirà in serata. Attore e regista registrano tiepidi e condiscendenti l'affetto un po' timido di chi va loro incontro, l'uno sornione fino all'inverosimile e l'altro abituato in Asia a fan assatanate, dunque alquanto guardingo. Rispondono alle domande della stampa, incoraggiano quelle del pubblico e Leung si sbilancia fino a definire "2046" il migliore della sua collaborazione con Wong. Ha ragione? Impossibile tracciare una classifica definitiva per un regista che usa ripetizione e perdizione di tracce tematiche per costringerti a vedere e rivedere  ogni suo film, alla ricerca della comprensione totale che non arriva mai. Così la sola certezza è l'incanto dell'androide Feye Wong, la sofferenza per le apparizioni mutilate di Maggie Cheung e il totale abbandono all'estetica totale di Wong, dove acqua, fumo e lacrime si mescolano in una rifrazione di piani spaziali e temporali. Una sola visione non è sufficiente.

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