Il mucchio selvaggio, di Sam Peckinpah
Punto di svolta della postmodernità perché alla novità del linguaggio si accompagnava un preciso intento sovversivo sui contenuti e sulle regole. Martedì 1° dicembre, ore 21.00, Iris
“Amo gli emarginati. Guarda, a meno che non ti adatti o ti arrenda completamente, finirai col restare solo in questo mondo. Ma arrendendoti, perdi la tua indipendenza di essere umano. Quindi sono con i solitari. Non sono nient’altro che un romantico e ho questa debolezza per i perdenti in generale, una specie di umile affetto per tutti i disadattati e i vagabondi del mondo. Nel West non ci sono eroi. C’è solo gente che ha paura della vita.” Sam Peckinpah
Fare un western per parlare di sé stessi e del rapporto con una America che deve fare i conti con la propria cattiva coscienza e con una violenza che diventa evento pervasivo culturale. Gli assassinii di Martin Luther King e di Bob Kennedy hanno sconvolto l’immaginario collettivo americano che ha già perso la sua innocenza dai tempi di Dallas. Quando nel 1969 esce Il mucchio selvaggio, Sam Peckinpah ha due idee precise nella mente: rappresentare la violenza in maniera realistica utilizzando tutti i mezzi della grammatica filmica e sovvertire le regole del genere trasformando gli eroi della Frontiera in un gruppo di “misfits” che nel 1913, varcando il confine tra gli Stati Uniti e il Messico, prendono atto del fallimento delle proprie esistenze. Già nel 1962 con L’uomo che uccise Liberty Valance, John Ford aveva dato un duro colpo alla leggenda del West, sottolineando la differenza tra la realtà dei fatti e la elaborazione millantatoria del mito. Peckinpah va ancora oltre e sconfina nell’iperrealismo e nel grottesco proprio per scioccare lo spettatore, facendo tabula rasa su tutti le convenzioni del genere. E’ facile identificare in Pike (William Holden) l’alter ego del regista, combattuto tra demonio e santità, inseguito dai falshback di un passato denso di sensi di colpa. E se la Patria è l’ultimo rifugio per un uomo senza più legami ed affetti, a Pike e al suo gruppo di “cattivi selvaggi” è negata anche questa possibilità.
Il mucchio selvaggio è fondamentalmente un “dirty-western” dove l’estetica polverosa del montaggio accompagna l’etica del perdente che si congeda dalla vita con un gesto finale da tardo eroe romantico. Il film è la summa di tutte le tematiche del regista americano: l’arroganza del potere, l’anarchia di “ribelli senza una causa” che si perdono tra alcol e prostitute, il tradimento dell’amicizia, la labilità di un rapporto amoroso, il rimpianto per un passato felice, i poveri prime vittime delle guerre, il mondo infantile e adolescente che ricopia le crudeltà e gli errori degli adulti. All’ordine geometrico di certo cinema classico americano, si contrappone il disordine e una confusione nei ruoli, con la impossibilità a separare il male dal bene.
La scena che apre il film è già un manifesto programmatico: da un lato Pike Bishop in uniforme da Cavalleria Americana che con il suo gruppo di “desperados” sta tentando il colpo alla banca di San Rafael nel Texas; dall’altro Deke Thornton (Robert Ryan) che nascosto su un tetto con altri cacciatori di taglie sta tendendo un agguato al suo ex amico. Il montaggio alterna le immagini dei due antagonisti con quelle allegoriche dei bambini che gettano due scorpioni in un formicaio e con la banda musicale che supporta la Lega anti-alcol. Peckinpah fa sul materiale western un lavoro di destrutturazione e riproposizione seriale (non lontano dalla pop art warholiana) che ha il suo zenit nella carnecifina finale: Il montaggio è frenetico (alcune scene durano 1/10 di secondo), numero spropositato di inquadrature (più di 3600 nel director’s cut), ralenti inseriti nei momenti topici, iperrealismo pulp. Donne calpestate dai cavalli, ponti che saltano in aria, treni che tornano indietro, bambini assassini, “gang-bang” dentro botti di vino (memorabile Warren Oates in una delle sue migliori interpretazioni), fiumi di alcol a obnubilare le coscienze, crudeltà e sadismo, sesso e potere legati da un nodo perverso (il generale Mapache e il suo stuolo di cortigiane). Tutto politicamente scorretto. Tutto volutamente sopra le righe. All’uscita del film schiere di critici condannarono la violenza e ne stigmatizzarono la pericolosità emulativa in un modo non dissimile da quello che accolse nei primi anni Novanta le opere di Quentin Tarantino. In realtà il ruolo di traghettatore di Sam Peckinpah verso i lidi della postmodernità ha fatto entrare Il mucchio selvaggio tra i film più importanti della intera storia del Cinema perché alla novità del linguaggio si accompagnava un preciso intento sovversivo sui contenuti e sulle regole.
Infatti il ribaltamento morale rendeva impossibile una qualsiasi identificazione, e anche le canzoni messicane (La Golondrina di Sevilla) assomigliavano a un canto funebre dell’epopea del West, una elegia di disillusi che hanno perso la loro occasione e sono costretti a un esilio permanente. Il cinema di Peckinpah vira decisamente verso una deformazione allucinata: alla distruzione dei miti della famiglia, della legge, della giustizia, dell’amore, si sostituisce una rappresentazione violenta di un microcosmo comunque estraneo ad ogni norma sociale. La violenza prima relegata al fuori campo o a un astuto taglio di montaggio, adesso inonda lo schermo non per puro calligrafismo ma come fenomeno antropologico e culturale, metafora di una America che divora sé stessa. L’effetto sarà maggiormente evidente in Pat Garrett e Billy the Kid (1973) verosimile sequel del rapporto tra Pike Bishop e Deke Thornton.
Il mucchio selvaggio diventa così film seminale perchè mostra contemporaneamente nello stesso personaggio, crudeltà e solidarietà, violenza e dolcezza, rabbia e malinconia, influenzati enormemente dal contesto socio-culturale e dal principio di azione-reazione. Il “cielito lindo” messicano è testimone dagli stessi orrori e abusi di potere dei territori americani, e la linea di frontiera non è il confine tra l’inferno e il paradiso. Pike cercava l’Eden di un passato idilliaco in un Messico per lui ancora incontaminato, ma si trova davanti agli occhi un paese ormai travolto dal progresso e dalla rivoluzione; Thornton non può che ricevere la pistola-testimone dell’amico e combattere al fianco dei peones di Pancho Villa, ma ha già ucciso la propria immagine allo specchio cedendo al ricatto dei mercanti della Ferrovia. Uomini fuori tempo, fuori luogo, in cui l’attraversamento di una invisibile barriera interiore coincide con quella del punto di non ritorno. E dietro lo sguardo truce e crudele si nasconde una paura fottuta della vita.
Titolo originale: The Wild Bunch
Regia: Sam Peckinpah
Interpreti: William Holden, Ernest Borgnine, Robert Ryan, Warren Oates, Ben Johnson, Edmond O’Brien, Emilio Fernandez
Durata: 134′
Origine: Usa 1969
Genere: western