La notte, di Michelangelo Antonioni

Un film rarefatto e allusivo e in fondo misterioso dove non c’è realismo e non c’è metafora. L’apice di un percorso con uno dei finali più belli di sempre.

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Per un regista il problema è cogliere una realtà che matura e si consuma, e proporre questo movimento, questo arrivare e proseguire, come nuova percezione. Non è suono: parole, rumore, musica. Non è immagine: paesaggio, atteggiamento, gesto. Ma un tutto indecomponibile steso in una sua durata che lo penetra e ne determina l’essenza stessa. […] Le persone che avviciniamo, i luoghi che visitiamo, i fatti cui assistiamo: sono i rapporti spaziali e temporali di tutte queste cose tra loro ad avere un senso oggi per noi, è la tensione che tra loro si forma.

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Michelangelo Antonioni,Il «fatto» e l’immagine, Antonioni 2009, p. 50)

Secondo film della trilogia dell’incomunicabilità. La notte (1961) è davvero un crocevia essenziale all’interno delle dinamiche della cultura italiana di quegli anni, così ricca e piena dei fervori delle avanguardie letterarie, ma artistiche in generale. Antonioni sembra recuperare dentro questo paradigma della solitudine che è La notte, questo clima e costruisce un film governato da una destrutturazione del racconto, così come era già avvenuto con L’avventura, ma sarebbe diventato definitivo con L’eclisse. Su un versante opposto il film possiede una forte struttura interiore che privilegia i vuoti anziché i pieni, i silenzi, nelle cui scenografie si leggono il senso di modernità di quegli anni attraverso una ridefinizione volumetrica dello spazio e in cui lo spazio stesso, gli spazi diventano terreno di confronto, arena di scontro e riflessi di una caotica coscienza ovvero, al contrario, specchi segreti di anime solitarie incapaci di relazioni. L’ambiente urbano così frenetico, così caotico riflette l’inquietudine dei personaggi, come già in L’avventura gli spazi solitari delle isole siciliane raccontavano il progressivo distacco da ogni sentimento.

Giovanni (Marcello Mastroianni) e Lidia (Jeanne Moreau) sono una coppia in crisi, la grave malattia di un comune amico

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La notte, M. Antonioniforse li spinge a cercare un diversivo in casa di conoscenti dove un party li terrà impegnati una notte intera. I due non riescono a parlarsi e solo al mattino, insieme al sole sembra delinearsi una speranza.

Il film di Antonioni risente della forte antitesi di cui vive tutta la cultura italiana di quegli anni, attratta dalle ideologie delle avanguardie politiche che nel fare dell’arte si tramutava in avanguardia linguistica e d’altro canto coltivava un legame ancora molto stretto con una borghesia che, per quanto illuminata, restava molto aggressiva nel difendere i privilegi di casta. Queste contraddizioni saranno centrali nel lungo party notturno nella casa dell’industriale brianzolo. Valentina, la figlia (Monica Vitti) è l’emblema di questo conflitto e Giovanni che si dibatte in questa contraddizione ne resta inevitabilmente attratto. Il film, visto dal punto di vista di Giovanni, sembra un eterno confronto con la propria coscienza, con la morale, con i sentimenti che sembrano cercare tutti insieme un nuovo assetto un nuovo sfogo e una rinnovata verità. I valori tradizionali non sono più sufficienti a sorreggere la vita interiore dei personaggi e sembra essere la cultura italiana ad accorgersi di questo e Antonioni si fa interprete di questa trasformazione in atto attraverso il suo cinema, così legato ai La notte, Monica Vittisentimenti, ma al contempo così efficace a dimostrarne la loro desertificazione. Giovanni e Lidia sono due personaggi immobili e se in Lidia traspaiono delle emozioni, Giovanni, lo scrittore di successo, ma in crisi con se stesso, corteggiato dalla buona borghesia, sembra refrattario ad ogni emozione e perfino le sue timide avventure sono prive di quell’erotismo che appartiene esclusivamente alla componente femminile. Queste parvenze di esistenze vivono e si radicano dentro le fredde architetture di una Milano in pieno boom economico.

Sono proprio le fredde linee in vetro e cemento a introdurre i temi di questo film così rarefatto e allusivo e in fondo misterioso nel quale Antonioni sembra trovarsi maggiormente a proprio agio. Un’opera del tutto prosciugata da ogni necessità narrativa e perfino da ogni necessità espositiva. Non c’è realismo e non c’è metafora nel cinema di Antonioni. Il suo lavoro e soprattutto quello di quegli anni è davvero una incessante ricerca di molteplici realtà interiori, uno sguardo apocalittico sulla coscienza e sul suo manifestarsi, sulla percezione di questa interiorità alienata. È un lavoro di ricerca, di scavo, di rifinitura incessante che ripulisce la realtà da ogni impurità narrativa per raggiungere il limite di una possibile purezza e nudità dell’animo. Sembra una ricerca La notte, Mastroianni e Moreaudell’assoluto, che agisce come uno scandaglio di ogni relazione umana per guardare alla sua finitezza e alla sua labile consistenza. Non c’è emozione nella morte di Tommaso, solo Lidia sembra accennare ad un pianto. C’è una metafisica anche nell’inaridirsi dei sentimenti, nella progressiva assenza dalle relazioni. C’è nel cinema di Antonioni e soprattutto in quello di quegli anni un pessimismo inguaribile, un profondissimo senso di insoddisfazione che non trova soluzione, ma sembra perpetuarsi all’infinito dentro quei mondi senza gioia e senza alcuna consolazione.

La sequenza finale del film sembrerebbe essere stata ripresa in Matrimonio all’italiana di De Sica, nella famosa scena che chiude il lungo dialogo sul Vesuvio. Le tre invocazioni che don Mimì rivolge a Filumena, entrambi riversi per terra, chiedendole di stare zitta, ricordano la stessa invocazione del suo Giovanni Pontano abbracciato a Lidia.

 

Regia: Michelangelo Antonioni
Interpreti: Marcello Mastroianni, Jeanne Moreau, Monica Vitti, Bernhard Wicki, Rosy Mazzacurati
Durata: 122′
Origine: Italia, 1961
Genere: drammatico

 

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
4.44 (9 voti)
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