FILM IN TV – "L'Outsider", di Béla Tarr

Andras Szabo in L'outsider

Chi già conosce i lavori che hanno reso celebre Béla Tarr nel panorama internazionale stenterà a riconoscere la sua regia in L'Outsider, secondo lungometraggio basato su uno stile sporco, documentaristico, virato al sociale e molto distante da ciò che sarà la successiva poetica dell’autore ungherese. Venerdì 25 Ottobre alle 2.05 su RAI3

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Andras Szabo in L'outsiderÈ difficile se non impossibile guardare un film di Béla Tarr senza considerare ciò che è stato il bruciarsi gli occhi con il suo ultimo film, Il cavallo di Torino, al tempo stesso candela e incendio. E l’impossibile si determina ancor di più nel cercare di liberare la mente di fronte a L'Outsider, secondo film del regista ungherese, e constatare la difficoltà del dimenticare il nulla, il buio totale che acceca l’ultima visione di Tarr. Ma pur nella cecità, è possibile trovare i fili sepolti il cui intreccio darà corpo ai successivi film, da Perdizione in poi.   

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Seguiamo il movimento di Andras Szabo, giovane violinista in costante lotta con la realtà quotidiana di un anonima cittadina ungherese. L’unico conforto, l’unica superficie su cui posare la testa è il violino, solo compagno con cui Andras può chiudere gli occhi e parlare. L’altro appoggio è la bottiglia che, come intuibile, è soluzione e insieme problema: l’alcolismo di Andras distrugge il poco di vita rimastagli, lacerata fra il difficile rapporto con la moglie, da poco divenuta madre, e il licenziamento dal lavoro come infermiere in un manicomio. E proprio la scena iniziale, dove Andras suona circondato da pazienti con sguardi folli, sembra anticipare di vent’anni la sequenza iniziale di Le armonie di Werckmeister, dove Valuska intrattiene il gruppo di avventori del bar descrivendo e inscenando i grandi moti dell’universo, con sguardo rapito. A collegare le due scene, gli occhi di Andras, quasi uno specchio di quelli di Valuska, ugualmente grandi, straniti e bianchi, in essi si legge tutta l’incomprensione verso una realtà estranea. Ciò che invece separa le due scene è il magnetismo orbitale della camera, quella rotazione continua nel suo dispiegarsi nello spazio e nel tempo, che in Werckmeister avvolge i corpi nell’inquadratura privandoli del loro peso in quegli attimi in cui l’occhio si posa su essi. Qui invece la camera di Tarr è ostinata, sporca nel suo continuo oscillare su se stessa, pesante nella fissità sui volti. Manca la volontà di indagare questi visi, perché è il dialogo a dominare l’economia stessa del film, sommersa da una valanga di parole che si asciugano intorno alle labbra appena pronunciate. Venendo a mancare il violino-protesi-estensione di Andras, viene a mancare l’intero equilibrio del film, alla deriva poiché poggiato a sua volta su un protagonista privo di centro, vittima di un trascinarsi immobile in un presente che asciuga i colori rendendoli inespressivi come per paura di un qualsiasi rimando altro.

 

L’intento sociale e politico, il manicomio della realtà che non segna distinzioni fra il dentro e il fuori, appare oggi scolorito, le voci affievolite, ma forse è solo il bruciore degli occhi a offuscarci la vista.  

 

Titolo originale: Szabadgyalog
Regia: Béla Tarr
Interpreti:  András Szabó, Jolan FodorImre Donko
Origine: Ungheria, 1984
Durata: 122'

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