Pretty Woman, di Garry Marshall
Una delle tappe fondamentali della commedia sentimentale, alla ricerca dell’Hollywood classica con un’intesa magica tra Richard Gere e Julia Roberts.
Potrebbe essere un incrocio tra George Cukor e Walt Disney. Con l’incrocio folle tra My Fair Lady e Cenerentola. Con Pretty Woman il cinema di Garry Marshall si orienta, per la prima volta, in maniera diretta, verso la Hollywood classica. Ci sono anche le ombre di Stanley Donen (Vivian che guarda Sciarada in tv) e l’utilizzo delle porte che sembra richiamare quello di Lubitsch (della stanza d’albergo, dei negozi su Rodeo Drive, dell’ascensore). Ci sono anche dei richiami espliciti con degli attori (Ralph Bellamy) e soprattutto lo strepitoso Hector Elizondo, nei panni del direttore dell’albergo, che è quasi la mutazione di quegli attori apparentemente secondari che però poi diventavano decisivi burattinai, come per esempio Herbert Marshall.
La ricerca della Hollywood classica è perfettamente materializzata all’inizio, prima dell’incontro tra Edward e Vivian. Una Lotus si perde per le stade di Hollywood Boulevard. Nel viale popolato dalle prostitute che segnano i loro confini ci sono per terra le stelle sul pavimento, come per esempio quella di Carole Lombard. L’apertura è in questo senso, rivelatrice e fulminante. Lo sguardo di Marshall si riappropria della nervosa mobilità di Richard Gere, come se avesse ereditato il gigolò di Paul Schrader, e lo inserisce in uno spazio già segnato dall’immaginario, da riprendere e utilizzare in una storia fatta di metamorfosi.
Innanzitutto c’è la trasformazione degli oggetti: la scala esterna come se fosse la scalata al castello con la Principessa, i fiori (ancora My Fair Lady) e la macchina dell’albergo, che riporta Vivian a casa, come la carrozza dopo che è scattata la mezzanotte in uno degli squarci mélo più potenti non solo del cinema di Marshall ma proprio della commedia sentimentale di quel decennio. Il volto di Julia Roberts, la canzone di It Must Have Been Love dei Roxette, la pioggia. Basta niente, eppure è magia. Con l’attrice che può essere per un attimo un’altra mutazione. Da Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany.
Quando è uscito in sala Pretty Woman ha avuo un enorme successo. Costato 14.000.000 di dollari, ne ha incassati 178.406.268 negli Stati Uniti e altri 285.000.000 nel resto del mondo. Ha fatto diventare Julia Roberts una star e ha rilanciato ulteriormente la carriera di Richard Gere che è tornata in ascesa dopo Affari sporchi di Mike Figgis. I due protagonisti si ritroveranno nove anni più tardi in Se scappi, ti sposo, sempre diretti da Marshall che però guarda più direttamente una commedia fisica. Ma questo primo incontro è stato quei colpi di fulmine inattesi che il cinema sa creare per strani, incomprensibili e decisivi effetti chimici. Per il ruolo maschile Marshall aveva pensato anche ad Al Pacino, Daniel Day-Lewis, Denzel Washington e Christopher Reeve. Per quello di Vivian c’erano invece in lizza Michelle Pfeiffer, Meg Ryan, Daryl Hannah, Jennifer Jason Leigh, Molly Ringwald, Valeria Golino e Karen Allen.
Nella scrittura di J.F. Lawton, Marshall inserisce tutti gli improvvisi bagliori di un cinema scintillante, che si cerca e non si ritrova più proprio come genere nel recente cinema statunitense. Fatto di continue trasformazioni sul corpo di Vivian. Come se ogni scena fosse un possibile ‘sliding doors’, quello vero.
Edward è un uomo d’affari che compra società in crisi, le smembra e le rivende traendoci enormi profitti. Vivian è una prostituta a cui l’uomo chiede le indicazioni per Beverly Hills. Poi lui gli propone di stare con lui prima per una notte, poi per una settimana, pagandola 3000 dollari. Sembra un rapporto d’affari. Ma poi scatta qualcosa.
Oggi è già più di un classico. È tra i film che hanno riformulato il genere, mostrandosi impermeabile al tempo. La commozione all’Opera, la giornata libera passata insieme o il momento in cui il direttore d’albergo insegna a Vivian come usare le posate per un’importante cena d’affari sono delle scene che si potevano girare anche 50 anni prima. Eppure è la potenza emotiva con cui quei momenti si solidificano. Marshall, lo abbiamo detto più volte, è un grandissimo cineasta nel rimettere in gioco un immaginario apparentemente conosciuto, quindi ormai neutro. E lo riempie però di continue vertigini in un cinema che, nelle sue attese, nel continuo contrasto tra ragione e desiderio, vola altissimo. E diventa continuo crocevia non solo nell’analisi della ‘politica degli autori’ per Garry Marshall ma anche imprenscindinile tappa temporale nella storia, evoluzione e tradizione del genere.
Titolo originale: id.
Regia: Garry Marshall
Interpreti: Richard Gere, Julia Roberts, Hector Elizondo, Laura San Giacomo, Jason Alexander, Ralph Bellamy
Durata: 117′
Origine: USA, 1990
Genere: commedia sentimentale