FILM IN TV – "Salomè", di Carmelo Bene

Con "Salomè" sembra di essere dentro una forma-pensiero in fieri, "ulissiana", immediatamente autofilmantesi, senza l'ombra, quell'ombra sciaguratamente già espressa quindi inutile, di una testimonianza soggettiva. Domenica 11 dicembre alle 3.50 su Raitre.

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Idolatrato dai giapponesi, salutato dai "Cahiers du Cinèma" come la sola risposta europea all'underground e al new cinema americano, premiato polemicamente in varie giurie a scapito di nomi altisonanti, la cinematografia di Carmelo Bene resta intollerabile, non offre appigli a possibili fughe mondane. E allora non potendo ghettizzarlo nel cinema sperimentale (i conti non tornerebbero…) si è preferito da sempre considerarlo un corpo estraneo, un oggetto di culto per appassionati eccentrici. Il cinema in Bene è "mancato" perché solo così ha potuto "crudelmente" distruggerlo così come ha sempre mancato il teatro. Sa infatti che il cinema è altro che una replica virtuale del già espresso, altro che pattumiera di altre arti convocate in una presunta settima, altro che fallimento e forfait del fermo-immagine che non cerca la differenza concettuale dall'attuale cronologico. Non ha avuto bisogno di effettacci drammaturgici alla Von Trier per imporre le sue idee rivoluzionarie, non rivoluzioniste. I suoi film sono di per sé scandalo. Odiati, fastidiosi, clamorosi. Ma senza violenze, idioti, fellatio, masturbazioni di sorta. Prendiamo ad esempio Salomè. La decapitazione del Battista è più volte allusa nel reiterato taglio del cocomero ma non si vede. La sola idea di un morto che possa risuscitare desta ribrezzo, è rifiutata. La paura non è indotta, è interna al film, la figura di Erode Antipa è tormentata dai segni, dai presagi della sconfitta. E il possesso di Salomè come ogni contatto umano è caricatura del possesso. Possesso che non può che manifestarsi in un gioco di specchi che a loro volta riflettono altri specchi, altre immagini mortali. Possesso insostenibile che non può che finire con la solarizzazione di un volto sfogliato, pura luce/voce straziata e urlante, in realtà uno dei tanti, infiniti strati di una serie di maschere. E questo farsi strappar via la pelle è in fondo metafora del cinema beniano che la pellicola ha maltrattato, calpestato, bruciacchiato letteralmente. Perché la pellicola è pelle, è derma trasparente che deve lasciar intravedere gli organi, l'organico. Anche se ciò può essere accecante. "Cinema è quando gli occhi miei si chiudono solo a guardarmi dentro" (C.B.). Non c'è immagine bella o brutta, artistica o reale ma solo quella il più possibile cieca. La visibilità dell'immagine viene così disattualizzata, privata della sua virtualità, non morta e trascorsa ma differente e assente. E' "un'immagine-cristallo" (Deleuze), è il tempo che si scinde continuamente in presente -e passato riflettendosi. "Un'immagine-ricordo" (Bergson) che non è un nuovo presente rispetto ad una passata ma un attuale presente di cui è il passato. Il tempo-Kronos non cronologico è la vera soggettività e la vera virtualità, noi siamo solo interni al tempo. "L'attuale è sempre oggettivo ma il virtuale è soggettivo…".
Mc Luhan avrebbe definito Salomè sicuramente "caldo" come tutto il media-cinema ma soprattutto "surriscaldato". L'opera infatti pur girata con quattro soldi eccede la visione. Vorremmo continuamente interromperne lo scorrimento per cogliere un dettaglio, un'informazione, una parola sovrapposta, un momento, un'idea, un fantasma di passaggio. Perché il film, i film, il cinema (il mondo tutto?) sono un continuo nastro di Mobius senza inizio né fine. Si rifà, si riguarda, si riscrive, si rigira. E con Salomè sembra di essere dentro una forma-pensiero in fieri, "ulissiana", immediatamente autofilmantesi, senza l'ombra, quell'ombra sciaguratamente già espressa quindi inutile, di una testimonianza soggettiva. Cinema dell'atto, senza azione, senza traiettoria, istantaneo nel suo divenire. Lo sguardo non è avvertito se non come falso, sempre filtrato da specchi, schermi, vetri. Ma non è neanche uno sguardo guardato. Caleidoscopio di luce e suono, quest'urlo abbacinante, questa supernova di voci, musiche e rumori spezzati, contraddetti e rimasticati nella sua caoticità classica offre spiragli di accessibilità pigra. Lo fa in virtù della clamorosa anticipazione dell'estetica del videoclip. Vedere per credere le oltre 4.500 inquadrature (!) che compongono questa serie discontinua e ricoordinata di immagini-specchio, immagini-lustrino, immagini-gioiello. In questa reggia acquatica ammiriamo i cromatismi schifaniani del dècor, le palme, questi oggetti illuminati e rifrangenti realizzati con l'impiego dello scotch-light della 3-M il che implicava la mobilità del parco lampade (un'impresa in cui gli americani avevano fallito, pare). E i costumi. E la macchina da presa che manca continuamente i corpi, il set, il corpo-film destabilizzando con panoramiche agitate che non mostrano mai tutto in un montaggio nervoso per di più privo di raccordi. E la voce straordinaria di Bene il cui corpo attoriale visivamente frantumato lo è ancor di più nelle tante variazioni tonali sovrapposte alle altre voci monocorde. Film anche e soprattutto di voci il suo (quante tesi di laurea meriterebbe la rumoristica del suo cinema?). E noi che non sappiamo se innamorarci di più del Cristo-Vampiro che prepara rituali orgiastici intonando Vipera o del Cristo che aspira ad una autocrocifissione impossibile. L'uno raffigurante lo sciacallaggio sulla sua figura operata dal cattolicesimo, l'altro la sua irrinunciabile umanità.

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SALOME' di Carmelo Bene


Con Carmelo Bene, Lydia Mancinelli, Alfiero Vincenti, Donale Luna


Italia, 1972, 80'.

Domenica 11 dicembre, ore 3:50, Raitre

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