FILM IN TV – Tutto su mia madre, di Pedro Almodóvar

tutto su mia madre

Premiato a Cannes per la miglior regia e vincitore dell'Oscar come miglior film straniero, Tutto su mia madre oltrepassa la vena citazionista per affermare l’uguaglianza tra arte e vita. Con un’ironia meno dissacrante del solito, Almodóvar coglie l’essenza di un’umanità complessa che trascende la rappresentazione classica del mondo femminile. Giovedì 30 novembre, ore 23.05, Sky Cult
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Se Bette Davis potesse vedere Tutto su mia madre sarebbe soddisfatta. Non tanto per l’omaggio di Almodóvar a quel capolavoro di regia, sceneggiatura e recitazione femminile che è Eva contro Eva (Joseph L. Mankiewicz, 1950), quanto per la dedica finale così intima eppure universale. L’attrice, che ormai in là con gli anni era stata accusata dalla figlia di essere una dispotica alcolizzata, trova qui il suo riscatto dall’unico “ruolo” che in vita, a differenza del cinema, le riuscì difficile “interpretare”. Proprio in questa pellicola vita e cinema si alternano e si confondono in una storia che non è né dramma né commedia, ma finzione autentica, paradigma contemporaneo di una realtà caotica e ambigua.

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Manuela (Cecilia Roth) ha un figlio diciassettenne che non ha mai conosciuto il padre. Una sera i due vanno a teatro per assistere a Un tram che si chiama Desiderio, e dopo lo spettacolo il giovane muore investito da un’auto. La donna decide allora di partire per Barcellona alla ricerca del suo ex marito, che nel frattempo è diventato un travestito, ed esaudire l’ultima richiesta del ragazzo.
Maturo e raffinato – come la soggettiva iniziale che mostra una matita dal punto di vista di un foglio – Tutto su mia madre oltrepassa la mera vena citazionista per affermare il conflitto irrisolto, e fondamentalmente l’uguaglianza, tra arte e esistenza. Le azioni dei personaggi si riflettono in un gioco di schermi che ne amplifica la portata; tutto è simulato (Silencio… No hay banda!) ma la recitazione è un’illusione reale: il decesso di un paziente in ospedale si ripete poco dopo in un video per promuovere l’espianto di organi (e ancora dopo, quando la protagonista dovrà dare il consenso per donare il cuore del figlio); il comportamento sospettoso di Manuela rievoca l’arrivismo di Eva Harrington; la gestualità attoriale di Huma (Marisa Paredes) ricalca le movenze di Bette (“Ho iniziato a fumare per colpa sua”).
Dietro questa sfilata di maschere si cela la dimensione più intima del cinema di Almodóvar: l’identità sessuale (Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio), i legami familiari (Tacchi a spillo), il binomio amore-morte (Légami!, Carne tremula) e soprattutto l’attenzione per le donne che culminerà nel bellissimo affresco generazionale di Volver. Mentre le figure maschili sono prive di spessore o macchiette utili a spezzare la tensione narrativa, le donne giganteggiano per la loro innata consapevolezza nei confronti della vita che le rende umili e aggressive, forti e disperate, intense sognatrici, come Rosa (Penélope Cruz) che spera di portare a termine la gravidanza nonostante la malattia o Agrado (Antonia San Juan) che confida nella bontà degli sconosciuti e cerca di alleviare i dolori altrui.
Con un’ironia meno dissacrante del solito e uno sguardo sempre ottimista, Almodóvar coglie l’essenza di un’umanità complessa (suore, prostitute, transessuali) in cui il femminile trascende spontaneamente la sua rappresentazione classica e dove perfino un corpo pieno di silicone può essere naturale, perché in fondo, come sostiene Agrado nel celebre monologo: “Una è più autentica quanto più somiglia all’idea che ha sognato di sé stessa”.

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