Filmare il vento: l'utopia di Joris Ivens

Va reso merito al Festival Cinemambiente di avere riproposto il cinema di Joris Ivens, uomo dalla cinepresa in spalla, pronto a partire per qualsiasi luogo dove un conflitto o una lotta per la libertà lo chiamasse e che nella forza degli uomini e nelle loro aspirazioni, ancora oggi, ci indica una via per il cinema del futuro.

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Quando alla fine del 1945 esce il primo libro italiano su Joris Ivens, per i tipi di "Il Poligono" di Milano, le note che accompagnano l'edizione, curata da Corrado Terzi, confessano candidamente: "Intorno a Joris Ivens e alla sua attività mancano nel modo più assoluto notizie sicure; possiamo dire senz'altro di esserne totalmente privi… Per questo non sappiamo quando Ivens nacque, né dove". Dell'autore olandese, fino a quel momento in Italia, si era visto solo Zuiderzee. Sono trascorsi 50 e passa anni da quell'epoca, ma per Ivens, tutto sommato le cose, rapportate ai tempi, non sono di molto mutate. Il suo cinema continua ad essere invisibile, se non fosse per le occasionali incursioni notturne nei territori di Ghezzi, oppure tra le pieghe delle rassegne dei cineclub che già, nel primo dopoguerra ebbero il merito di fare conoscere l'autore dalle nostre parti. Va quindi reso ampio merito alla V edizione di Cinemambiente di Torino per avere dedicato ad Ivens una ricca retrospettiva dei suoi lavori, in gran parte sconosciuti, qui organicamente proposti nella loro scansione cronologica. La rassegna è stata accompagnata da incontri collaterali che non soltanto hanno permesso una maggiore riflessione sull'opera dell'autore olandese, ma hanno, soprattutto, consentito di aprire uno spazio sull'umanità e non soltanto sul mondo poetico di questo straordinario uomo di cinema.

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Joris Ivens è l'autore che alla fine della sua carriera ha tentato l'impossibile: filmare il vento. Da questa impresa, titanica, utopica e straordinariamente affascinante, forse può partire l'analisi della sua opera che prende perentoriamente le mosse dall'affermazione senza replica "di fatto la zona di combattimento dei cineasti militanti è lo schermo". Per Ivens, sopra di ogni altro principio, quella dichiarazione fu ampiamente rispettata. Uomo dalla cinepresa in spalla, pronto a partire per qualsiasi luogo dove un conflitto o una lotta per la libertà lo chiamasse, ha girato davvero il mondo, pur partendo dalla sua Olanda che dopo averlo dichiarato indesiderato, nella parte finale della sua vita, gli ha reso parziale riconoscimento per l'opera complessiva.  Il ponte e Philips radio tra le sue prime opere. Ispirato dalle avanguardie dei primi anni del cinema il primo e un film su commissione il secondo. Prove generali delle grandi avventure di Ivens. Quelle che lo avrebbero portato a filmare lo sciopero dei lavoratori indonesiani in Australia a sostegno delle lotte di liberazione dal colonialismo olandese in atto in quel Paese. Nasce così Indonesia calling (1946) frenetico documento sulla solidarietà tra lavoratori australiani e indonesiani. Oppure la straordinaria avventura della guerra del Vietnam alla quale Ivens dedica due lavori in tempi differenti Le ciel, la terre (1965) e poi Le dix-septième parallèle (1967), ma prima e dopo ci sono ancora la guerra di Spagna, Spanish Earth (1952) con il commento di Hemingway, il lavoro per le costruzioni delle dighe in Olanda (Nieuwe gronden/Zuiderzee del 1934), o la fame tra i minatori del Belgio (Misère au Borinage, 1933), la costruzione dell'altoforno nelle regioni caucasiche della Russia (Komsomol, 1932), o il comunismo cinese nel monumentale Comme Yukong deplaça les montagnes (1973- 1975) e il capitalismo di Stato in Italia, L'Italia non è un paese povero (1960) dove insieme al desiderio di futuro e di industrializzazione filma anche la fame e la povertà. 

Per un tentativo di organizzare i materiali di Ivens, per trarne il necessario comune denominatore, è indispensabile affrontare con decisione la questione che caratterizzò, sin dalle sue prime mosse, la sua opera. Straordinariamente interessato al rapporto tra l'uomo e la natura, attraverso il quale racconta lo sviluppo delle comunità, Ivens ci parla di questa difficile relazione, di questa assenza di pacificazione tra l'uomo e gli elementi naturali, cogliendo in questo faticoso cammino le origini dello sviluppo di ogni attività industriale e di conseguenza ogni futuro. Lo sguardo di Ivens, in questo senso, si fonde con la sua anima militante, così per lui "il documentario è l'espressione della realtà nel suo aspetto causale e invitabile (…) il solo mezzo che resta al cineasta d'avanguardia per lottare contro la grande industria. (…) Il cinema d'avanguardia è un cinema che tende a provocare l'interesse e la reazione dello spettatore". Sono dichiarazioni del 1931, Ivens avrebbe tenuto fede in modo completo a questo progetto teorico attraversando per intero il secolo scorso raccontando le nequizie del potere attraverso le povertà dei popoli. Per questa ragione la visione di un film di Ivens diventa davvero un'esperienza, Ivens riesce sempre a rapportarsi con il suo spettatore, trasferendogli quasi il terzo occhio del cineasta  ponendolo al centro degli avvenimenti e dell'oggetto della sua documentazione.

Ma se di Ivens sono soprattutto ricordati i suoi documentari militanti, i già citati Spanish Earth, Le dix-septième parallèle, The 400 million (1939) sulla guerra cino-giapponese, proprio perché fortemente voluti, non vanno certo dimenticati i film su commissione nei quali non rinunciò mai ai propri principi teorici come, per tutti, in L'Italia non è un paese povero, girato su commissione di Enrico Mattei.  Proprio la caparbia difesa dei propri principi rende difficile la vita a questo film. Lo apprendiamo dalla ricostruzione delle vicende sulla realizzazione di questo film, contenuta nel bel documentario di Stefano Missio Quando l'Italia non era un paese povero, che completa la visione ivensiana del festival torinese. Attraverso le testimonianze veniamo a sapere che possiamo oggi vedere quest'opera nella versione pensata dall'autore, solo perché Tinto Brass, all'epoca insieme a Valentino Orsini e ai fratelli Taviani componente della troupe che girò i materiali, ne salvò una copia dopo che era stata presa la decisione di censurare il film tanto da costringere Ivens a disconoscerne la paternità.

Se la forte caratterizzazione politica ha segnato l'opera di Ivens, non possono essere dimenticate alcune opere, che definiremmo minori solo per la loro più scarsa diffusione, che la personale di Cinemambiente ha riproposto, riuscendo a porre rimedio alla loro ancora più scarsa circuitazione. Ivens qui libera il proprio spirito lirico, Pour le mistral (1965), …A Valparaiso (1963), La Seine a rencontré Paris (1965) ne rappresentano importanti esempi. Emergono, anche in queste opere, le personali ossessioni del cinema di Ivens. L'utopico desiderio di filmare l'infilmabile, l'impossibile. Pour le mistral, anticipa in modo straordinario l'ultima sua opera e la levità dei corpi dei giovani amici la cui immagine, peraltro, apre la bella monografia curata da Capizzi, Ganzerli e Giorgio, restituisce nel contempo una speranza di mutamento (il film è del '65 a tre anni dal '68 e Ivens, forse, ne percepiva già l'odore) e, con uno sguardo all'indietro, la straordinaria leggerezza del Vigo di Zero in condotta. Ma, soprattutto, ciò che affascina, nel magnifico cinemascope è l'ironia divertita con la quale nel fermo immagine gli uomini e le donne restano raggelati dalla raffica del vento, nella sfida, sempre visionaria, che ossessiona il regista, tra la natura e l'uomo. Dove, invece, Valparaiso, nato da un soggiorno di Ivens in Cile, in uno splendido bianco e nero racconta di una città che vive in verticale, un affresco coloratissimo ispirato dalla unica volontà di attraversare, senza sussulti, la vita tra quella gente. A chi gli rimproverava la contraddizione tra queste opere e le altre, dove la sua militanza appare in tutta la sua estrema vitalità, rispondeva che si trattava "dell'altro aspetto della mia arte di cineasta:l'ambizione poetica".

Così il cinema di Ivens ci indica ancora una direzione per un futuro del cinema e nelle sue parole – a chi gli chiedeva di tracciare le caratteristiche della propria opera – ritroviamo quell'umanità che oggi spesso ci appare dispersa nel cinema che comunque continuiamo ad amare: "l'essere legato strettamente con gli uomini che lottano per la libertà, per l'indipendenza e sentire veramente con loro tutte le loro pene, tutta la loro forza, tutte le loro aspirazioni e tutte la loro gioia; il cercare di essere vicinissimo a tutto questo, di scoprire gli elementi che per loro sono normali e ordinari e valutarli nel loro significato politico straordinario, che è nella direzione del futuro".


 



LINK:


www.ivens.nl


www.monteuve.com


www.news.cornell.edu


www.city.yamagata.yamagata.jp 

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