FILMMAKER 2024 – Un documento, di D’Anolfi-Parenti, e Poetenleben, di Tommaso Donati
Due visioni di rigore assoluto dall’edizione appena conclusa del festival milanese, due momenti d’ascolto in cui i paesaggi interiori vengono disegnati dai racconti al di fuori dell’immagine
C’è uno dei miei pezzi preferiti di Esperanza Spalding che recita “hearing is a labor like reading, hearing is a labor like keeping still; hearing is a labor like seeing, like seeing for real”, e il mantra che la musicista ripete instancabilmente all’interno del brano risuona in due visioni dall’ultimo Filmmaker Festival di Milano.
In entrambe, ascoltare è una fatica come leggere, per dirla con Esperanza, ma soprattutto è un lavoro come restare immobili.
In Un documento, di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, i due cineasti filmano le prime tre sedute di un immigrato in cura presso il Servizio di Etnopsichiatria del Grande Ospedale Metropolitano Niguarda di Milano. Si tratta solo di una parte delle riprese, risalenti al 2018, che seguono il percorso di cura del paziente: in ogni caso, l’inquadratura rimane ferma sulla psicologa e sullo psichiatra in ascolto, senza compiere mai un movimento di macchina né montare un controcampo del paziente, né della mediatrice linguistica che ne traduce le parole. Tre sedute d’analisi di mezz’ora, fisse sulle figure sedute dei due dottori, in cui ascoltiamo le risposte dell’uomo che, mai inquadrato, racconta i suoi traumi, la guerra civile in Sudan, il viaggio in Libia, il periodo a Parigi, e le sue difficoltà quotidiane al momento della terapia, gli incubi, la rabbia, la difficoltà a legare con gli altri: in un certo senso, si tratta dell’antitesi di Io Capitano, dove il film di Garrone astraeva nel favolistico l’incubo del reale, Un documento lascia invece che le immagini ci si formino direttamente nella testa, anche solo prestando attenzione ai racconti dell’uomo.
In questo, la gabbia formale, chiara metafora politica della posizione liminare, letteralmente fuori dal quadro, occupata all’interno del dispositivo istituzionale da un’umanità bisognosa di cure e supporto, si mostra meno inscalfibile di quanto possa lasciar intendere la struttura inamovibile e solo apparentemente an-empatica dell’opera: qualcosa, neanche tanto miracolosamente, muta negli sguardi dei due medici curanti, la psicologa e lo psichiatra, nel loro prendere confidenza di seduta in seduta con il paziente, nelle espressioni del volto che si rilassano, nei sorrisi che iniziano ad affiorare, i temi che si fanno più “leggeri” (lo sport, gli hobby), le prime parole in italiano dette dall’uomo… e tornano alla mente le invenzioni di Giovanni Cioni, gli sfondi neutri di In purgatorio o Non è sogno che si aprono sui viaggi anche solo evocati, suggeriti dalle storie narrate dai protagonisti, oppure quel controcampo impossibile “trattenuto” a lungo in Nous/Autres.
I controcampi di Tommaso Donati sono invece costantemente inanimati, gli angoli formati dai pavimenti delle stanze che si incrociano, le mura degli edifici, gli stipiti delle porte bianche delle case e i cieli grigi della svizzera – tutto sembra disegnato a matita in Poetenleben, la stessa matita con cui Robert Walser compilava i suoi “microgrammi”, testi scritti minuziosamente con grafia microscopica, a cui l’autore si dedica nella fase finale della sua vita, quella in cui abbandona la vita di città per rifugiarsi nella tranquillità rurale di una clinica psichiatrica di campagna.
Donati prosegue la ricerca messa a punto per il precedente, sublime L’epoca geniale, e gira un film di rigore assoluto, in cui, a differenza di altri grandi nomi che in Italia si sono approcciati al metodo delle “passeggiate” care a Walser – come più volte fatto da Mauro Santini, o recentemente da Giovanni Maderna – il paesaggio (non solo) interiore viene disegnato innanzitutto come ambiente sonoro, la punta di matita che traccia segni sul foglio bianco, le note di un pianoforte, il rumore delle cartelle con cui le mani del curatore ci mostrano l’archivio dei foglietti su cui Walser componeva le sue distese di frasi piccolissime, incolonnate come lastre di grafite.
Le linee spezzate con cui Donati già metteva in scena le attività della scuola di danza del film precedente qui sembrano rispondere alla volontà dello scrittore di scomparire dalla società e di isolarsi, le immagini stesse paiono volersi nascondere nei battiscopa, sparire nel bianco che progressivamente cancella le forme sullo schermo fino alla nevicata del finale. È così che Poetenleben, vita da poeta, più che illustrare gli scritti di Robert Walser – che ascoltiamo letti e commentati da diverse voci e in diverse lingue – li abita innanzitutto nella loro indecifrabilità, alla ricerca di quegli stessi segni che lo scrittore andava appuntandosi nelle visioni inermi di ogni giorno, i tronchi degli alberi, la cesta del bucato, la vita celata nei gesti più piccoli e fragili, come gli esercizi di danza appesi al cerchio aereo de L’epoca geniale.