#Filmmaker2017 – Tra sperimentazione e quotidianità

Il nostro resoconto dall’edizione, terminata il 10 dicembre scorso, del festival milanese. Alberto Grifi, Laurent Cantet, Alain Cavalier, Lech Kowalski , Véréna Paravel e Lucien Castaing-Taylor

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Il Filmmaker Festival di Milano, tenutosi dal dal 1° al 10 dicembre presso lo Spazio Oberdan, il cinema Arcobaleno e la casa del Pane, si riconferma un momento di incontro, di scambio e di riflessione importante per osservare e comprendere le direzioni e le congiunzioni, non solo del cinema, ma dell’arte tout court.
L’atelier di Laurent Cantet è il film d’apertura, il regista torna in una classe, questa volta un workshop sulla scrittura, su come creare un romanzo. Da qui emerge uno dei temi più attuali e forse difficili da affrontare oggi: il razzismo, la paura della diversità e Cantet lo affronta con eleganza e delicatezza.

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Ma il vero evento del festival è stato senza dubbio la retrospettiva dedicata ad Alberto Grifi, uno dei maggiori cineasti sperimentali italiani. A Filmmaker va il merito di aver dedicato un percorso al grande regista scomparso nel 2007, un percorso che ritrovasse e rianalizzasse la sua opera con i suoi film più significativi e i dibattiti intorno alla sua opera.
Ricongiungersi con il cinema di Grifi significa riflettere nuovamente sugli insegnamenti di un artista che ha contribuito in maniera forte a ridefinire il cinema di ricerca ma, allo stesso tempo, ricontestualizzare nella contemporaneità il pensiero della settima arte in toto. Con il capolavoro Anna, realizzato tra il 1972 e il 1975, il cinema di Alberto Grifi segna un punto di svolta nel panorama sperimentale europeo, la rivoluzionaria tragedia della protagonista rappresenta un nuovo modo di fare cinema e soprattutto di guardare.

All’interno della piccola sezione romanticamente chiamata Viaggio al termine della notte, sono state dedicate alcune proiezioni a due registi ultimamente molto discussi. Si tratta della coppia di studiosi di antropologia e etnografia Véréna Paravel e Lucien Castaing-Taylor. Durante il festival, alla presenza dei registi, sono stati proiettati Caniba, portato all’ultima mostra di Venezia e Somniloquies. Mai titolo fu più appropriato per parlare di artisti di questo tipo, Paravel e Castaing-Taylor infatti si soffermano con un particolare sguardo, forse cannibale, su storie e processi che conducono lo spettatore nella notte più oscura.
Ma il Filmmmaker Festival è soprattutto un’occasione per soffermarsi su un certo tipo di cinema: la sezione Fuori formato infatti è interamente dedicata al cinema sperimentale e di ricerca, quest’anno tra i vari appuntamenti il Festival ha ospitato Siegfried A. Fruhauf, che ha presentato una serie di lavori molto interessanti (sperimentazioni tra fotografia, film e video) in un momento fondamentale per chi è interessato al cinema che sta ai margini e per scoprire piccoli capolavori della cinematografia austriaca.

Un’ulteriore retrospettiva è invece stata dedicata al regista francese Alain Cavalier che

LECHcon film come Thérèse nel 1986 ha vinto il premio della giuria a Cannes. Qui a Milano ha presentato dei ritratti – Portrait N.1: Jacquotte, Portrait N.2: Daniel, Portrait N.3: Guillaume, Portrait N. 4: Philippe, Portrait N.5: Bernard e Portrait N.6: Léon. Questa serie di film, dapprima pensati per la televisione, raccontano ognuno di vite differenti ma che hanno in comune la quotidianità dello scorrere del tempo, della vita che va avanti con i problemi e le ossessioni di ogni giorno.

Il film che trionfa per il concorso internazionale è I Pay for your story di Lech Kowalski in cui il regista torna a Utica, negli Stati Uniti, città dove è cresciuto, oggi colpita dalla disoccupazione, e accoglie i suoi vecchi concittadini con l’insegna “I will pay for your story”, con l’obiettivo di comprare i racconti della loro vita, facendosi coinvolgersi e immergendosi nelle parole di chi racconta. La giuria ha motivato la scelta con queste parole: “Il film, con la sua capacità visionaria, anticipa un possibile disegno futuro: una società di persone senza occupazione, viventi ai margini, per cui apparire in programmi di intrattenimento basati sul dolore rappresenta l’unica possibilità di esistenza e di reddito. Nella voluta ambiguità del dispositivo l’autore esprime un preciso progetto estetico e politico.”

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