Final Destination: Bloodlines, di Zach Lipovsky e Adam Stein
Un horror che pare uno squarcio su un cinema che non c’è più: orgogliosamente di pancia, esplosivo e forse consapevole di quanto manchi, oggi al pubblico un approccio come il suo

Torna al cinema dopo 15 anni, il franchise di Final Destination, 15 anni in cui il cinema pop non è solo cambiato: Se da un lato sembra aver confermato le straordinarie ambizioni massimaliste, giocose della saga creata da James Wong nel 2000, dall’altro sembra chiudere la porta a qualsiasi nuova iterazione, oggi, ad un franchise che è tutto di pancia, superficiale, vicino alle logiche del B-Movie e lontano dalle mitologie (che vorrebbero essere) complesse, articolate a cui fa capo molto intrattenimento popolare oggi. Forse Final Destination: Bloodlines si rende conto delle difficoltà con cui rientra in gioco dopo tutto questo tempo. E così pare tradire la sua stessa natura pur di stare al passo.
Tutto riparte dunque non più da una premonizione di morte che sconvolgerà uno dei protagonisti ma da un incubo ricorrente che tormenta la giovane Stefani. Ogni notte, la ragazza rivive infatti l’impresa della nonna, che negli anni ’60 aveva previsto il crollo di un avveniristico ristorante e ha salvato tutti i presenti. La Morte tuttavia, ha deciso di regolare i conti con i sopravvissuti arrivando a decimare anche la famiglia dell’anziana. Stefani eredita dunque da lei non solo il compito di infrangere la maledizione ma anche le strategie per farlo, raccolte dalla donna in anni di ricerche.
Ecco è evidente che dentro Final Destination: Bloodlines ci siano davvero tutta una serie di dettagli che raccontano il suo voler essere ostinatamente “nel tempo”: l’immersività ai limiti delle esperienze VR del sogno, lo svelamento delle strategie d’azione della morte che rendono l’avventura di Stefani quasi “giocabile”, l’importanza della family nell’economia narrativa, forse persino l’insistere sulla dimensione eroica da “senior” della nonna della protagonista, che vive in una casa “da combattimento” come la Jamie Lee Curtis degli Halloween di David Gordon Green.
Ma forse si tratta di una falsa pista. Forse il gioco davvero scoperto è quello portato avanti da un film che, anche a costo di schiantarsi, sfiora tutta una serie di spunti che potrebbero portarlo ad una sorta di reset della sua identità, ma si limita a sviluppare solo le intuizioni che sembrano più affini al suo essere, come l’inedita dimensione intimista su cui indugia a tratti il racconto. È probabilmente un altro paradosso, un approccio a suo modo monacale ma comunque legatissimo alla formula tradizionale, quella esplosiva, massimalista, muscolare, di cui il film si diverte comunque a mostrare tutta la potenza e che, con strafottenza sembra infestare anche l’immaginario retrò del prologo, come un fantasma che pare mostrarci che, in fondo, quella violenza, quel cinema quasi senza pensieri, è ciò che abbiamo sempre voluto, è ciò che forse stiamo ancora cercando. Quello che pare a tutti gli effetti un ritorno conservativo ad un cinema di vent’anni prima è in effetti ciò che racconta paradossalmente meglio (e per giocosa negazione) tutta la contemporaneità del film, il suo essere davvero “nel tempo”.
Final Destination: Bloodlines torna infatti a mettere in primo piano la mano registica (addirittura ammantando dello status di metteur en scene due anonimi shooter), in un cinema di operai della messa in scena ma soprattutto torna a ridare potere a quella mano, che detta i tempi dell’azione, i modi in cui l’eccitazione visiva si fa davvero visibile. La fa esplodere liberamente sulla scena ma spesso la strozza, la velocizza, la nega, anche a suo rischio, come nel bel prefinale che, forse, avrebbe meritato più spazio.
Forse la riforma sfiorata dal film è tutta qui, in un cinema che è parte della Franchise Age ma ne nega alcuni caratteri essenziali, che, pur con tutti i limiti del caso, torna a riscoprire l’autorialità almeno nei suoi aspetti essenziali, che prova a ristabilire i rapporti di potere tra regista e spettatore, cellula di una rivoluzione ancora, ironicamente, negata, perché proseguirla vorrebbe dire proseguire un racconto che il film pare voler chiudere a tutti i costi.
Titolo originale: id.
Regia: Zach Lipovsky e Adam Stein
Interpreti: Tony Todd, Brec Bassinger, Richard Harmon, Rya Kihlstedt, Max Lloyd-Jones, April Telek, Anna Lore, Teo Briones, Alex Zahara, Matty Finochio, Mark Brandon, Gabrielle Rose, Kaitlyn Santa Juana
Distribuzione: Warner Bros. Pictures
Durata: 110′
Origine: USA, 2025