Fino alla fine, di Gabriele Muccino

Muccino sembra voler ridimensionare le ambizioni, per abbracciare un approccio più apertamente d’intrattenimento. Alla ricerca di un cinema global, da esportazione. RoFF19. Grand Public

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A quattro anni di distanza da Gli anni più belli, Muccino sembra in cerca di una ridefinizione, di una nuova posizione. Magari da trovare nel punto di incontro tra la doppia traiettoria del suo cinema, quella che ha costruito la sua fortuna alla svolta del millennio e quella delle sortite americane. O, ancor meglio, all’incrocio tra la volontà o le pretese autoriali e un’attenzione più marcata alle dinamiche del cinema di genere. Il risultato, Fino alla fine, è un film che non t’aspetti. Che all’inizio sembra voler raccontare l’ennesima crisi esistenziale destinata a esplodere nel dramma urlato, inutilmente sovraccarico. Ma poi, pian piano, si trasforma in tutt’altro, in un thriller esagitato, che addirittura si nutre di una tensione action imprevista.

La storia è quella di una ragazza americana, Sophie, che vola a Palermo per l’ultimo giorno della sua vacanza in Italia. Un viaggio organizzato per alleviare il dolore di un lutto che la affligge, la scomparsa del padre. Invano, si direbbe. Anche per il controllo asfissiante della sorella. Ma giunta in spiaggia, Sophie decide di allontanarsi da sola. Incontra un gruppo di giovani palermitani e si ritrova coinvolta in una folle deriva per le strade della città.

Tutto in una notte. La scrittura di Muccino e Paolo Costella gioca con le aspettative disattese. Semina indizi, suggerisce implicazioni, ma improvvisamente sbanda e cambia strada, proprio come le auto che si inseguono all’impazzata per i vicoli contorti del centro storico. Soprattutto, sceglie di ridimensionare le ambizioni, per abbracciare un approccio più apertamente d’intrattenimento. In Fino alla fine, insomma, Muccino sembra mettere da parte ogni volontà di scavo psicologico o di affresco generazionale. Nonostante la solita recitazione urlata, sovraccarica, nevrotica, sopra le righe, per una volta i suoi personaggi assolvono deliberatamente al compito di essere semplici funzioni, puri vettori narrativi. Non c’è traccia di profondità, a parte qualche accenno al passato, o qualche gesto, un’espressione che lasci intuire il segreto di un vissuto. Come nello sguardo perso nel vuoto di Lorenzo Richelmy, stretto in un abbraccio che non avrebbe mai immaginato. È il suo Komandante, non a caso, il personaggio che lascia maggiormente il segno, che si imprime negli occhi e nei ricordi. Molto più della protagonista, Sophie (Elena Kampouris), di cui si tenta, invece, una tridimensionalità accentuata. E che però talvolta finisce per essere più scontata delle convenzioni, una specie di nota stonata per eccesso di giustificazione autoriale. In fondo, sono le scene introspettive, quelle che dovrebbero svelare meglio l’intimità della protagonista, a risultare più forzate. Come la sequenza al pianoforte, nel centro commerciale deserto. Il film è molto più convincente quando resta a galla, in superficie. E in questo senso è del tutto sensata la scelta di muoversi in una Palermo turistica e stereotipata: Mondello, le feste notturne in Vucciria, le strade del centro tra la Cattedrale e Piazza Pretoria. Quasi uno sguardo da cartolina, che rifugge la tentazione sociologica e il realismo d’impegno. Segno di una volontà di andare a fondo, fino alla fine, nella ricerca di un cinema global, da esportazione, nonostante le sbandate, le esagerazioni, i ripensamenti.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3
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Il voto dei lettori
2 (6 voti)
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