Fogo-Fátuo, di João Pedro Rodrigues

Il colonialismo del Portogallo, l’ironia queer più iconoclasta. Un João Pedro Rodrigues probabilmente minore, eppure mai così divertito e divertente. #Cannes2022 , Quinzaine des Réalisateurs

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“Come si può difendere ciò che non si desidera?”, dice l’istruttore nero Afonso al re bianco senza corona Alfredo quando la loro esercitazione di salvataggio diventerà progressivamente seduzione, bacio e coreografia. Lo stesso desiderio per il quale i corpi nudi e in posa dei vigili del fuoco di Fogo-Fátuo replicano e trasformano in una sorta di baccanale acrobatico queer i dipinti di Caravaggio, Rubens e Francis Bacon, fino alla Pietà come ultimo e definitivo tableau vivant prima dell’addio. Come a dire, in una delle tante sequenze brillanti e parossistiche messe in scena da João Pedro Rodrigues nella sua audace “fantasia musicale”, che perfino l’arte non può esistere se non è mossa dalla carne. Sei anni dopo avere provocatoriamente (omo)sessificato, e quindi a suo modo nuovamente santificato in un vero e proprio percorso di Fede e di redenzione, Sant’Antonio da Padova (o da Lisbona, dove nacque e di cui è patrono) nel cammino erotico e giocosamente eretico di O ornitólogo, il regista portoghese immagina ora una fiaba musical gay onirica e farsesca, consapevolmente incongrua, sovraccarica e dissacrante. Un film in cui la brama si erge a ben precisa rivoluzione, e lo sperma, tanto più se copiosamente sgorgato sulla faccia di un principe da un discendente dei suoi schiavi, può diventare il definitivo ribaltamento sociale con cui umiliare e ridicolizzare il colonialismo, vendicarlo in una dominazione sessuale e in una risata di scherno.

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Gira tutto attorno al desiderio, in Fogo-Fátuo. Quello del re detronizzato dalla Repubblica che sogna ancora di riprendersi la corona, quello del principe Alfredo suo figlio che invece vuole arruolarsi nei vigili del fuoco secondo “meritocrazia repubblicana”, quello dell’intera caserma gay che fra esercizi fisici, prove di forza, mutande strappate sul culo e cazzi al vento (o enormi sul muro in diapositiva, proprio come i tronchi di quegli alberi amati e cantati da bambino) non smette mai di esibire e di bramare i propri corpi. Un desiderio che Rodrigues trasforma in un viaggio cinematografico onirico che inizia e finisce nel 2069 della morte del principe, passando per il 2011 della sua infanzia e per l’oggi della sua vita da aspirante pompiere in cui scoprire il sesso fra porte/sipario e macchinine, palcoscenici casalinghi e luminosi prati d’amore vicino al fiume, assurde ipocrisie solidali da lontano della famiglia reale quando spegne le candele durante un incendio in TV e definitivi sovvertimenti politici che si cristallizzeranno infine nel disvelarsi delle più alte cariche dello Stato democratico. Fino alla contemporaneità che irrompe ma in un flashback, con la notizia dell’intera famiglia di Alfredo sterminata dal Covid.

Un “fuoco fatuo” filmico profondamente libero, rapsodico, colorato, spudorato, iconoclasta, divertente e divertito, con cui Rodrigues compie un ulteriore scarto tanto dal rigore della tradizione portoghese deoliveriana quanto dall’oscurità dei suoi primi lavori, da Il fantasma a A Última Vez Que Vi Macau (realizzato al tempo in co-regia con il compagno João Rui Guerra da Mata, qui “solo” co-sceneggiatore e art director) per guardare da qualche parte fra il Miloš Forman di Al fuoco, pompieri e l’(auto)ironia più esacerbata di Bruce LaBruce. Il risultato, presentato alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes75, è uno spassoso divertissement che dopo le alte ambizioni e i raffinati simbolismi del cinema precedente di João Pedro Rodrigues si pone intenzionalmente come un gioco che punta più a lambire che a sviscerare, più alla satira che a una reale speculazione filosofica sull’identità o sulle colpe coloniali del Portogallo, più alla provocazione queer che a una reale riflessione sul tempo o sul finto dell’impostazione teatrale e dei giganteschi “posticci”, come li ha sempre chiamati Tinto Brass, con cui scambiarsi onanismi su un prato fra un “antropofago” e uno “schiavista” d’eccitazione. Un’opera probabilmente minore, eppure non per questo meno riuscita nella sua irresistibile comicità irriverente o meno capace di osare nelle forme e nelle stoccate politiche, con cui parodiare negli anni la società e buttare in caciara esplosiva le sue ipocrisie, il colonialismo monarchico di ieri e il razzismo repubblicano di oggi, e poi ancora il classismo, il conformismo e l’omofobia che invece non sono mai cambiati. Non resta che metterli nel mirino e sfidarli, attraverso un caleidoscopio di generi e intuizioni che saltella fra la commedia nera, la parodia politica, la danza e le più improvvise esplosioni musicali. Ma soprattutto fra i cazzi. Non solo oggetto del desiderio omoerotico, ma vere e proprie armi di ribellione, da sbattere ancora e ancora in faccia ai perbenisti.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5
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Il voto dei lettori
5 (1 voto)
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