Forza maggiore, di Ruben Ostlund

Il racconto narrativizza i materiali liberati da un (pre)testo reale che apre gli orizzonti, scontrandosi con l’ateismo naturale delle cose o la gratuità del “dono” che non si “scarta” senza dolori

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Una famiglia svedese, con al seguito due bambini, va a trascorre la settimana bianca sulle Alpi Francesi, in un posto da favola. Le giornate sono splendenti e le piste per sciare perfette. Il secondo giorno, mentre si trova su di una terrazza a pranzare, viene giù una valanga che raggiunge anche i tavoli all’aperto. Fortunatamente sono tutti illesi. Scampato il pericolo, il panico non è del tutto svanito, ma fanno tutti finta di niente e ognuno riprende regolarmente la propria attività. Solo qualche ora più tardi, la moglie, vedendo ancora spaventati i suoi figli, rinfaccia al marito di averli lasciati soli al momento dell’impatto. In effetti, l’uomo, per istinto, si stacca dagli altri componenti e questa sua reazione lo costringerà, da quel momento in poi, a fare i conti con una profonda crisi coniugale. Le giornate si susseguono e gli occasionali incontro fatti in Hotel, renderanno ancora più critica la situazione. Il quarantenne regista svedese (al quinto lungometraggio e vincitore dell’Orso d’oro a Berlino nel 2010 con Incident in a Bank per il migliore cortometraggio) è ovviamente interessato ad indagare come l’essere umano cerca di reagire in situazioni estreme e pericolose. Da questa domanda arriva ad imbastire un dramma esistenziale, sul mito dell’eroe di famiglia che cerca di tenere a bada i suoi sensi di colpa concedendo ai figli e alla moglie alcuni giorni di relax. Ma l’istinto di sopravvivenza metterà a nudo le debolezze umane.

Non c’è più tempo e modo oggi di difendere la propria famiglia, in una realtà che tende a tenere tutto sotto controllo e ciò rende sempre più destabilizzante e confuso il ruolo dell’uomo. Tutto si gioca sullo smantellamento della mitologia famigliare e sulla retorica dei rapporti umani, sempre più dettati dalla convenienza personale e dall’istinto di sopravvivenza, appunto. Ma per tutta la storia, sembra essere dietro l’angolo ancora un’altra catastrofe, amplificando e mettendo maggiormente in risalto gli angoli più estraniante di una pista sciistica, come la funivia, il buio che avvolge l’hotel nella notte, i corridoi deserti e silenziosi delle camere, inservienti ambiguamente impiccioni. L’autore lavora sulle atmosfere e sa essere anche decisamente divertente in alcuni passaggi. Senza contare una certo occhio nelle riprese esterne sulla neve, fatte di panorami mozzafiato e movimenti di macchina a seguire i personaggi, mostrando un’evidente padronanza. I corpi in bilico si limitano a significare, a rappresentare una condizione che si esaurisce in se stessa. Orizzontalità di uno sguardo che cerca di avvicinarsi ad una condizione (l’equilibrio precario) di per sé negata o messa seriamente in discussione. C’è sempre, o quasi sempre qualcuno escluso dall’inquadratura: un personaggio fuori fuoco o la mdp piazzata in basso a riprendere i bambini e a tagliare la testa agli adulti. Il film sembra che abbia inizio nell’istante stesso in cui si sia progettato il viaggio, scandito dai giorni di vacanza. L’andamento del racconto narrativizza i materiali diegetici liberati da un (pre)testo reale che apre gli orizzonti, scontrandosi con l’ateismo naturale delle cose o la gratuità del “dono” che non si “scarta” senza dolori e pentimenti.

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