Franco Citti, un borgataro aristocratico

La sua maschera dura e malandrina, ma tragica, nella sua purezza sottoproletaria ha segnato la sua vita e il cinema di Pasolini. Il suo volo è finito, Franco Citti ci ha lasciati

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Accattone, dai dialoghi del film

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In poche occasioni il cinema ha così perfettamente sovrapposto un personaggio di un film a quello dell’attore che lo ha interpretato, pochissime volte è valsa la reciproca, ma con Accattone e Franco Citti questa sovrapposizione così laicamente consustanziale è avvenuta, nel percorso cristologico del protagonista non più divisibile dalla maschera tragica e predestinata di Franco Citti. L’intuito di Pasolini ha avuto ancora una volta ragione e quel film non sarebbe stato lo stesso se quella parte fosse stata affidata ad altri, anche fosse stato un attore professionista. Il cinema di Pasolini forse non sarebbe stato lo stesso, quel film non avrebbe forse avuto lo stesso risultato e sicuramente la vita di

Franco Citti sarebbe stata differente. Era proprio la sua maschera dura e malandrina ad aderire con perfezione assoluta a quell’idea di purezza sottoproletaria che Pasolini coltivava in quegli anni. Franco Citti era il tragico borgataro malinconico e fatalista, il cui pessimismo sembra essere tutto racchiuso nella breve frase che precede il volo d’angelo nel Tevere nell’incipit di Accattone. Quel volo, quella sequenza, quelle parole, che contengono un distacco così aristocratico nel momento di un sacrificio finale, non solo elevano l’autenticità dello spirito del personaggio, ma oggi (nel montaggio concluso della sua vita, secondo le parole di Pasolini) sembrano avviare e dinamicamente completare la parabola cittiana e la sua naturale partecipazione al mondo terreno e a quello artistico di Pier Paolo Pasolini.

Citti, Pasolini, Davoli, Garofolo

Citti, Pasolini, Davoli, Garofolo

Lo scrittore amava quel mondo così lontano dalle sue origini che fino a quel momento nessuno aveva saputo, né voluto raccontare. Franco Citti con suo fratello Sergio sono stati i mentori di Pasolini, le sue guide quasi virgiliane, in quei luoghi così lontani e marginali così sentimentalmente vicini alle sue speculazioni letterarie e politiche. Non era ancora stato scritto Ragazzi di vita quando Pasolini e Citti si conobbero, anzi il loro incontro fu decisivo per la scrittura del libro. Pasolini appuntava le frasi e le parole in romanesco di Franco Citti e di suo fratello Sergio che tanta altra parte avrebbe avuto nel percorso artistico del regista e poeta friulano.
Diceva l’attore scomparso all’età di 80 anni: “… il rapporto con Pasolini è stato per me, in

Citti, Magnani, Pasolini

Citti, Magnani, Pasolini

un certo senso, distruttivo, perché non è che io proprio amassi fare il cinema, ma nello stesso tempo so che dovevo farlo, forse anche solo per amicizia. E, come ti ho già detto, per certi versi mi affascinava, come quando lavoravo con gli amici miei. Poi però sono stato costretto a lavorare con altre persone che non conoscevo, e mi rompevo i coglioni perché non erano leali con me. Miravano al successo, capisci? Allora qualcuno, magari, si è permesso di dire: ‘Ma sai, quello è un borgataro” (da un’intervista di Stefano Milioni, www.storie.it).

Ma Franco Citti nel cinema non è stato solo il borgataro pappone e personaggio cristologico di Accattone, ha portato il suo modo di essere e la sua cultura, il suo carisma popolare anche al di fuori del cinema di Pasolini. Era nato nel 1935 e aveva intrapreso con poca convinzione, in verità, la carriera dell’attore, dopo avere fatto nella vita il

Franco Citti

Franco Citti

muratore, aiutando il padre insieme al fratello che era imbianchino. Finì con il girare 55 film, forse non tutti indimenticabili come Accattone, ma restano memorabili, le sue interpretazioni negli altri film di Pasolini Mamma Roma (1962), Edipo re (1967) nel quale fu protagonista, Porcile (1969) e il Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972) e Il fiore delle Mille una notte (1974) e poi quelli diretti dal fratello Ostia (1970), Storie scellerate (1973), Casotto (1977), Il minestrone (1981), Sogni e bisogni (1985), I Magi randagi (1996). Aveva anche fatto delle apparizioni a volte fugaci anche in Requiescant (1967) di Carlo Lizzani, Roma (1972) di Federico Fellini, in Todo modo (1977) di Elio Petri, Yerma (1977/78) film per la TV di Marco Ferreri, La luna (1979) di Bernardo Bertolucci e Il segreto (1990) di Francesco Maselli e nelle produzioni

internazionali di Il Padrino (1972) e Il Padrino. Parte III (1990) di Coppola. Ma tutto questo

Citti e Pacino

Citti e Pacino

non lo aveva cambiato ed era rimasto sempre fedele alla sua natura popolare e borgatara. Era forse proprio questa la sua originale caratteristica, quella di non essere stato mai intaccato dalla sfrenata irrequietezza della celebrità. Se Citti non ha cambiato il cinema è altrettanto certo che quel mondo non ha mai cambiato la sua natura discreta, solitaria e timida. Fu forse la sua dimensione tragicamente moderna ad attirare anche l’attenzione di Carmelo Bene che lo volle come interprete della versione teatrale della sua dissacrante Salomè. La genialità corrosiva di Bene non poteva non accorgersi di questo figlio di una cultura del tutto estranea al suo guardare il mondo attraverso la rappresentazione iperbolica del teatro e fu così che Citti prese parte a quello spettacolo portando nel mondo di Bene,

Franco Citti, Accattone, 1961

Franco Citti, Accattone, 1961

ancora una volta, la borgata e la sua strafottenza innata.
Provò a cimentarsi nella regia e nel 1997 diresse Cartoni animati con protagonista Rosario Fiorello, il film fu un fiasco, nonostante la presenza del noto showman, quel film nacque da una sua idea, ma la regia fu in effetti affidata per lo più a Sergio. Un film malinconico su una condizione di possibile felicità tra i senza casa di Villaggio felice. Ancora una volta una specie di borgata, che era il suo mondo, la sua condizione esistenziale. Franco Citti ha sempre avuto l’aria, nei film che interpretato, di un uomo fuori luogo, eternamente sradicato, privo di una collocazione che fosse per lui condizione esistenziale sufficiente. Irrequieto e malinconico, ribelle, ma sensibile. Sembra oggi di rivederlo nelle sequenze del suo film quello che forse avrebbe potuto aprire e chiudere la sua carriera, tanto la sua icona sembra adattarsi e confondersi con quella dell’attore e dell’uomo.
Lassù su Ponte Sant’Angelo, con ai piedi il Tevere, con il suo volo d’angelo. Questa volta Accattone ci ha lasciati davvero.

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