François Truffaut, professione cinema (parte 2)

Per ricordare Truffaut a 20 anni dalla sua scomparsa (21/10/84), vi anticipiamo a puntate alcuni passaggi significativi dell'intervista-fiume inedita di François Truffaut concessa ad Aldo Tassone. Il libro, edito da CinEuropa, accompagna la retrospettiva di "France Cinéma" a Firenze (2 – 8 novembre). Parte 2a.

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Celebriamo gli 80 anni dalla nascita di Francois Truffaut riproponendovi alcuni passaggi significativi dell’intervista-fiume inedita di Truffaut concessa nel 1977 ad Aldo Tassone

Alfred Hitchcock

 

La sua attrazione verso Hitchcock era un modo per lei di controbilanciare l’influenza di Rossellini?

Al contrario di Rossellini, Hitchcock era una persona inquieta, uno che funziona sulle paure infantili. Tutta l’opera di Hitchcock illustra delle paure: paura del vuoto, paura di cadere, di perdere l’equilibrio. È riuscito molto bene a trasformare tutto questo in sceneggiature che funzionano bene. Non ha mai preso la patente né guidato la macchina per paura di incidenti, viveva ritirato dalla vita, anche a causa del suo fisico non ha mai fatto sport, mai sciato, mai nuotato, non si riesce ad immaginare Hitchcock a cavallo. Se Rossellini faceva parte della vita, Hitchcock, al contrario, era fuori dalla vita. Era entrato nel cinema come si entra in convento… Disegnava scrupolosamente ogni inquadratura, disegnava tutti i suoi film da solo e seguiva fedelmente i modelli…

Penso che l’influenza di Hitchcock sul mio cinema sia stata maggiore di quella di Rossellini, non nella scelta dei soggetti ma nel modo di trattarli. Pensare a come farebbe Hitchcock piuttosto che pensare a come farebbe Rossellini mi aiuta di più, anche perché Rossellini non amava la fase dell’esecuzione. L’esecuzione era molto accurata nei suoi primi film, ma anche abbastanza frettolosa e disinvolta, Roberto voleva finire al più presto; non amava fare un film, amava finirlo. Io ho sempre pensato che la vera vocazione dell’ultimo Rossellini era la televisione, il posto dove avrebbe dato il meglio era la direzione di un canale televisivo. Sarebbe stato bravissimo nel concepire progetti d’insieme, da affidare ad altri, lui avrebbe curato la coordinazione e il montaggio finale. Lì avrebbe esercitato in pieno i suoi doni pedagogici.

 

Hitchcock non amava Rossellini e il neorealismo… Si può amare svisceratamente (come fa lei) Hitchcock e Rossellini allo stesso tempo?

Hitchcock era molto polemico con questo movimento che scosse il cinema dopo la guerra, quando i grandi film neorealisti arrivarono in America; e poi Rossellini gli rubò l’attrice, Ingrid Bergman, ragione di più per polemizzare. Ingrid aveva girato con Hitchcock dei film che per lei rappresentavano l’artificio, pensava che andando da Rossellini avrebbe dato un’immagine di verità, voleva che i film somigliassero alla vita. Penso che oggi avrebbe un’opinione diversa; i film che ha fatto con Rossellini sono buoni, ma una star, per definizione, deve rimanere una star, un mito; il fatto di aver lasciato Hollywood non ha giovato alla sua carriera, Rossellini è stato obbligato ad aggiustare i film per lei, doveva sempre inventarsi un personaggio di anglosassone; pur amando molto Stromboli, Europa ’51, personalmente preferisco i film che Rossellini ha fatto senza di lei, anche nel periodo in cui erano sposati, come Francesco giullare di Dio.

 

Cosa apprezza di più in Hitchcock?

La cura e la capacità di farsi capire al meglio, di realizzare i propri sogni e farli incontrare con quelli dello spettatore. Ha fatto un’analisi del cinema che credo buona. Non che tutta la produzione cinematografica debba somigliare ai film di Hitchcock, ma lui è quello che ha riflettuto meglio sul cinema. Nei film c’è una parte enorme lasciata al caso, ma nei suoi lavori lui ha cercato di eliminare il più possibile la casualità.

 


Le letture di François Truffaut

 

Gli scrittori più importanti nella sua formazione?

A parte quelli molto noti come Balzac, Proust, hanno contato molto per me Queneau, Audiberti… Quello che rimarrà della letteratura francese del ventesimo secolo sono probabilmente Proust e Céline; alcuni li ammirano entrambi, io sono sempre stato dalla parte di Proust, lo preferisco perché il suo pensiero è completamente articolato, concluso, mentre la follia di Céline non mi appassiona. Proust è morto dieci anni prima che Céline diventasse famoso, e ci sono molti testi di Proust in cui condanna quelli che scrivono con i puntini, che sono invece il punto di forza di Céline. Alla musicalità di Céline preferisco quella di Proust, la sua grande delicatezza e acutezza nel rappresentare i sentimenti mi appassionano. Proust inoltre si interessa agli altri, mentre Céline gira sempre intorno a se stesso e basta. E non posso apprezzare la sua follia antisemita, la paranoia, la persecuzione. Persone come lui le evito anche nella vita, se mi si dice che qualcuno è “perseguitato” evito di frequentarlo, quindi non vedo perché dovrei frequentarlo in letteratura. Detto questo, il mio giudizio non è equilibrato: c’è di sicuro un grande talento in Céline, ma non riesco ad appassionarmene. Mi piace molto la lucidità, le persone che cercano la chiarezza.

 

Non è mai stato tentato di portare sullo schermo La recherche?

È impossibile trarre un film dalla Recherche. A meno di prendere un solo episodio… Forse solo Visconti sarebbe stato capace di fare qualcosa di decente con La recherche; Proust fa parte credo del tipo di scrittori che è meglio lasciar stare.

 

 

Il cinema

 

Per un regista hanno importanza le teorie, oppure non servono?

All’inizio specialmente si ha “bisogno” di crearsi delle teorie. Non mi convince quel regista che non ne ha mai avuta nessuna. Queste teorie sono valide solo per lui, ma è importante averne. Persino Fellini deve avere avuto delle teorie. Se ci si fa caso, ogni scena di un suo film è costruita come un numero di cabaret, di circo: inizia con un personaggio – l’assolo di uno strumento -; poi ne entra in scena un secondo, poi un terzo e così via, e intanto nella colonna sonora intervengono nuovi strumenti (Rota fa bene il suo lavoro); a un certo punto appaiono davanti alla cinepresa oggetti bizzarri (veli, fumoni, cose anomale che fanno sì che tutto diventi misterioso), in una crescente progressione visiva e musicale. Alla fine la sinfonia esplode in una sorta di apoteosi. E si passa alla sequenza successiva. L’amore per il circo, per il cabaret deve averlo indotto a costruirsi una specie di teoria. La quale, evidentemente, vale solo per lui, perché Bresson, ad esempio, cerca esattamente il contrario: fare un film che formi una sola linea, come Dreyer… Come vede, i registi lavorano con delle teorie. Alcuni stanno attenti ad alternare scene di giorno e scene notturne, per cui a momenti molto chiari si alternano sullo schermo altri più sfumati; invece registi come Bresson o Dreyer fanno in modo che lo schermo sia grigio o bianco dall’inizio alla fine del film. Funzioniamo con le teorie.

 

È coraggioso continuare oggi a voler fare del cinema classico, come fa lei…

Non so se è coraggioso, diciamo che c’è una certa pressione da parte degli intellettuali, e trovo che si debba resistere a questa pressione. Nel 1930, in Francia, c’era un movimento d’avanguardia piuttosto importante nel cinema, c’erano pittori che cominciavano a fare film, c’erano dei fotografi come Man Ray, un’avanguardista come Germaine Dulac, un intellettuale come Louis Delluc… Sapete cosa faceva invece Jean Renoir? Girava delle commedie popolari come On purge bébé e Tire-au-flanc! [ride]. Beh, trovo che aveva ragione. Gli altri stavano facendo un’esperienza interessante, ma che non aveva futuro. Cercavano di trascinare il cinema altrove, di corromperlo intellettualmente.

 

Quando si dice «Truffaut è un regista autobiografico, romantico», come reagisce?

Non faccio commenti… Sono ormai così restio alle definizioni e alle polemiche che mi lascio attaccare senza ribattere. Detesto la violenza, l’idea che i registi si accusino l’un l’altro, che è poi un modo per dire subdolamente «sono più bravo io!». Si abbassano gli altri per mettersi in mostra, tutto questo è meschino e assurdo. Ci sono stati in Francia molti regolamenti di conti tra scrittori famosi, tra Mauriac e Cocteau ad esempio, e anche tra registi. Siccome ognuno ha le proprie idee, quando si fa lo stesso lavoro è molto difficile apprezzare quello degli altri perché si notano sempre le differenze – «io avrei fatto così» -, ma non è una ragione per far delle sordide polemiche assurde, perché del tutto estranee all’arte cinematografica.

 


Truffaut e la politica

 

Lei ha fama di essere un irriducibile individualista. Qual è la sua posizione politica?

Devo fare dei distinguo. Mentre in arte ho delle convinzioni abbastanza radicate, per esempio non amo gli sperimentalismi idioti fine a se stessi e difendo tuttora un cinema narrativo incentrato su un personaggio e una storia, in politica ho delle convinzioni meno sicure… Al tempo della guerra d’Algeria ho firmato il famoso “Manifesto dei 121″ a favore dei disertori. A suo tempo avevo disertato l’esercito – ero nell’artiglieria – per analoghe ragioni. Diciamo che sono quello che i gauchistes più detestano al mondo, cioè un socialista “riformista”, nel senso che credo più nelle riforme concrete e possibili che nelle grandi idee rivoluzionarie che sono diventate l’oppio del ventesimo secolo. Non riesco insomma ad immaginare cosa potrebbe essere qualcosa di decisamente differente, preferisco immaginare la stessa cosa, ma in meglio. Quindi sono per il sistema attuale, migliorato. Sono a favore di sindacati molto potenti. Essere riformisti è credere nella stessa cosa, ma diminuendo le ingiustizie, gli inconvenienti.

A mio umile avviso, i rivoluzionari convinti mescolano troppo arte e politica, nel senso che hanno in politica idee astratte che possono funzionare solo nel regno della poesia, non nella realtà concreta della società in cui viviamo. Sono degli esteti. Non riesco ad immaginare una fabbrica “degli operai”. I politici, secondo me, dovrebbero far meno discorsi teorici e seguire piuttosto l’esempio delle massaie: è un lavoro impoetico e ingrato quello di lavare i panni, togliere la polvere dai mobili, raccogliere i rifiuti, ma è un lavoro indispensabile. I politici dovrebbero tentare di far funzionare meglio le cose, non esprimere belle idee ma impraticabili. Gli estremisti di destra e di sinistra sono degli esteti, dei dandy, con delle idee che variano nel tempo. Non credo che si possa essere estremisti per tutta la vita. Ma socialisti sì.

Sono un irriducibile individualista e temo che morirò tale. Sono sempre stato diffidente verso tutto ciò che viene deciso in gruppo, provo sempre la stessa attrazione per i cuori solitari, sono sempre più convinto che non siamo niente senza gli altri, penso sempre a Chaplin, alla sua tenace lotta per cercare il cibo per la giornata. Tutta la sua vita è stata una lotta.

Per quanto mi riguarda accetto solo i premi che riguardano la mia attività cinematografica, niente altro. Non accetto inviti dai Ministri della Cultura e da altre personalità pubbliche. Non faccio nemmeno parte della Società dei Realizzatori, non faccio parte di niente. Non me ne vanto, ma non sopporto inviti ufficiali. Mi rendo conto che far parte di un gruppo (soprattutto quando le cose vanno male nel privato) è un modo per non sentirsi soli. È una tentazione grande unirsi a dei gruppi quando si hanno dei problemi personali; un modo per dimenticare, per evitare di affrontare il problema; ma si rischia di pensare allora che le soluzioni siano di ordine collettivo, un bel guaio. […]

Ci teniamo su con delle illusioni, l’illusione dell’attivismo. Fontenay diceva una frase formidabile: «gli uomini hanno inventato il lavoro perché non hanno il coraggio, o la possibilità, di dormire, fare l’amore, divertirsi per ventiquattro ore, allora si occupano lavorando». Un terzo del tempo al sonno, un terzo al lavoro, un terzo alla libera iniziativa. Se si esce da questo schema triadico ci si sente perduti. Questo è il vero problema di sempre.

Cosa pensa l’apolitico Truffaut degli ultimi cambiamenti politici della Francia mitterrandiana dopo le elezioni del 1981?

Sono stati positivi. Non sul piano economico, per il momento – è questa la cosa più difficile – ma nella mentalità, in certi dettagli. In passato c’era stato un grande disprezzo da parte della classe dirigente politica francese nei confronti dei cittadini: prima un grande disprezzo gollista, poi un grande disprezzo giscardiano. Disprezzo e condiscendenza. Nessuno nella destra aveva il coraggio di dire che la Costituzione patrocinata da De Gaulle era mal fatta, dava tutto il potere al Presidente, e così rendeva impossibile l’alternanza: con un Presidente di destra non ci poteva essere una maggioranza di sinistra, era un vero ricatto agli elettori. Oggi non c’è più questa condiscendenza. Io ho auspicato febbrilmente la vittoria dell’opposizione, volevo questo cambiamento. Anche se Giscard era stato anti-gollista, lo stato maggiore politico lo era ancora, c’erano le stesse persone da venticinque anni, e quando andavo in America o in Inghilterra mi vergognavo perché avevo l’impressione che si dicesse: «in Francia non cambia niente, l’alternanza è impossibile». L’arrivo dei socialisti lo aspettavo da tempo; non amo i comunisti, ma il fatto che ci siano dei ministri comunisti non mi disturba affatto. Curiosamente, la vittoria di Mitterrand è dovuta in parte alle donne che lavorano; le casalinghe erano contro Mitterrand perché lo trovavano meno sexy e affascinante di Giscard, ma le donne lavoratrici hanno cominciato a capire che era necessario un cambiamento; e così Giscard ha perso a causa delle donne che lavorano!

Giscard faceva una politica completamente ipocrita; faceva finta di essere Kennedy, mentre in realtà era Luigi XV. Era la menzogna sistematica, non poteva non venire smascherato! Per un certo tempo volevano fare uscire dal gioco Mitterrand, ma a poco a poco è riuscito a imporsi, a guadagnare rispetto e fiducia. Forse la sua squadra è un po’ astratta, ma quella di Giscard conosceva soprattutto i propri interessi. Mitterrand è troppo “idealista”? Ma è meglio essere idealisti che cinici, no?

Sono sempre stato contro gli slogan tipo: «Tutto è politico!». Milan Kundera si è violentemente opposto a questo slogan, che trovo assolutamente stupido. Certe cose della vita hanno dei rapporti con la politica, ma la vita affettiva della gente non ha nulla a che fare spartire con la politica. Questo slogan ci ha avvelenato la vita per troppi anni, ha prodotto dei discorsi noiosi, dei brutti libri e dei brutti film.

 

Lei una volta ha detto che i migliori registi americani erano di destra. In che senso?

È un fenomeno sconcertante a cui abbiamo assistito in America. I migliori registi americani – penso a Hitchcock, Ford, Hawks – sono di destra, nel senso che il cinema americano è migliore quando è manicheo, quando ci sono i buoni e i cattivi, perché è un cinema d’azione e non – com’è invece in Europa – un cinema efficace nelle sfumature. I film americani sfumati sono raramente buoni, mentre in Europa è il contrario, non so perché. Ma so chiaramente una cosa, cioè che la coscienza sporca (venuta con le deportazioni, le guerre coloniali e adesso con la televisione, che ci permette subito di sapere cosa non va in tutto il mondo) non è creativa. A parer mio, la coscienza sporca non ha mai fatto fare un buon  film o un buon libro, al contrario, ha fatto fare dei brutti film politici e dei pessimi western di sinistra. Gli americani sono forse più adatti ad esaltare la guerra che a condannarla…

 

Truffaut e la religione

 

So che la Rai una volta la interpellò per proporle di dirigere un film su Gesù…

Ho risposto che mi era impossibile: sarebbe stato disonesto da parte mia, non sono credente. Sono di un’indifferenza religiosa tremenda. La mia religione è sempre stata il cinema, e siccome non sono un tipo polivalente – confesso di non essere mai riuscito a prendermi sul serio – non ho mai considerato necessario concedermi il lusso di una seconda religione. Il Messia per me è stato Charlie Chaplin, e la sua morte mi ha traumatizzato come quella di un padre. Chaplin mi ha realmente aiutato a vivere, e ho creduto in lui religiosamente. Ma anche se da ragazzo non ho mai sentito l’esigenza di entrare in una chiesa, non è che io sia anti-clericale. Rispetto tutto e tutti.

In Francia siamo obbligati a chiudere le chiese perché non c’è più nessuno per sorvegliarle, in molti villaggi non ci celebra più la messa che una volta al mese perché non ci sono più preti, c’è un’enorme crisi, che non è meno forte della crisi del cinema. E non è senza rapporto… Mi ricordo di un film di Bergman, Luci d’inverno, che amo molto: alla fine il pastore celebra la messa nella chiesa vuota. Ho avuto l’impressione – o mi è piaciuto interpretarlo così – che Bergman lanciasse un messaggio “professionale” ai colleghi registi: anche se non c’è più nessuno nei cinema, bisogna continuare a fare film. E questo mi ha dato molto coraggio. Quattro o cinque anni fa, passeggiando sugli Champs-Elysées, non si vedeva più nessuno davanti ai cinema; poi il pubblico è tornato… Quindi, come vedete, c’è un rapporto.

 

Le altre parti dell’intervista:

 “François Truffaut, professione cinema” (1) 

“François Truffaut, professione cinema” (3) 

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