Gannibal, di Shinzo Katayama

In piena continuità con il manga di Ninomiya, la serie ha la grande capacità di legare i concetti fondativi della cultura nipponica alle strutture più crude(li) del folk horror anglosassone. Disney+

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Lontano da Tokyo, il cinema – e in questo caso, la serialità – giapponese sembra essere sempre interessato da consistenti svolte tematiche, che inglobano in sé le particolarità socio-ambientali dei luoghi rappresentati. Che si tratti dell’isolazionismo di Okinawa, dell’umanismo di Hokkaido o dei disastri tellurici del Tohoku, ogni regione, isola o prefettura richiede perciò, a chi le raffigura sullo schermo, un immediato cambio di paradigma, soprattutto dal punto di vista dei contenuti. Ai fini del racconto, quel che funziona negli spazi urbani della capitale – e quindi alienazione, stratificazioni sociali o oltranzismo – non può risultare logicamente rappresentabile se il luogo in cui è ambientata la storia opera secondo logiche assolutamente diverse. È in questo senso, allora, che in una serie come Gannibal, si può arrivare a riflettere sugli insularismi più abietti e lugubri di ambienti “esterni” alla macro-società. Anche attraverso una loro rilettura di genere.

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Adattata dall’omonimo manga horror di Masaaki Ninomiya, la serie non perde tempo a connotare i luoghi forestali del racconto di un soffocante senso di insondabilità. È da lì che nascono tutti pericoli, soprattutto per chi non ne comprende le ramificazioni culturali. Non è un caso, allora, che Gannibal inizi proprio con l’omicidio di un poliziotto, condannato in quanto “forestiero” a crollare sotto il peso di tradizioni eticamente inaccettabili per un giapponese comune. E in tal senso, l’arrivo improvviso nella cittadina (fittizia) di Kuge da parte dell’agente Daigo Agawa (Yûya Yagira), non solo esacerberà un conflitto sociale impossibile da disinnescare. Ma decreterà i termini di un isolazionismo comunitario deliberatamente enigmatico, che genera i “mostri” solamente per chi non è in grado di adattarsi alle tradizioni/maledizioni del villaggio.

Nel momento in cui il protagonista mette piede a Kuge, di fatto è già con(dannato). Sin da subito lo vediamo affrontare le stranezze comportamentali della comunità, metterle progressivamente in discussione, talvolta anche ricorrendo alla violenza bruta. Ma più cerca di soverchiare il sistema di potere alla base dei presunti atti di cannibalismo collettivi, più gli abitanti del luogo si aggrappano alle loro oscure ritualità. Ed è in questa dimensione di estrema polarizzazione, dove gli appartenenti ad un gruppo autoctono possono sopravvivere solamente se negano (e quindi sopprimono) “l’eretico”, che Gannibal fa dialogare le strutture fondative della cultura giapponese con i codici più tipici del folk horror anglosassone.

Alla pari dei protagonisti di The Wicker Man (1973), Midsommar o Hot Fuzz, Daigo è il miscredente per eccellenza, colui che necessita di essere sacrificato (e fagocitato) dall’ambiente circostante proprio perché si ostina a condannare delle eredità culturali che non hanno più posto nella società contemporanea. E in linea con i suoi predecessori, si fa veicolo della lotta agli anacronismi più eticamente inaccettabili della modernità, suggerendo in egual misura una visione inedita di queste stesse conflittualità. Se gli horror folkloristici di cui sopra sono perlopiù radicati in una dimensione espressiva di stampo occidentale, in Gannibal tutto prosegue sul filo della contaminazione tra culture. La dialettica uchi/soto, cioè quel concetto di “dentro” e “fuori” che storicamente governa i rapporti tra i cittadini giapponesi – e visibile in opere come I sette samurai o Makanai – qui non solo determina la cornice di riferimento in cui si muove la narrazione, ma si apre anche a forme narrative ampiamente codificate, che ne rendono universale la rappresentazione dell’orrore. In questo modo, quei riferimenti linguistici che solo i nipponici possono cogliere – come ad esempio il nome dato al villaggio, Kuge, che richiama l’antico sistema delle famiglie aristocratiche – rifluiscono in un insieme di codici, logiche e figurazioni dalla comprensione immediata e generale. E che spinge il racconto di azioni impure e riprovevoli, oltre i limiti di ciò che è eticamente rappresentabile.

Ed è proprio qui che il testo trova i canoni del suo piacere visivo. Gli horror, si sa, devono stregare lo sguardo per la loro deliberata oscenità, specialmente quelli come Gannibal che mutuano i propri contenuti dai meandri più oscuri delle pulsioni umane. Sequenze di cannibalismo si intrecciano così ad un affastellamento continuo di volti sfigurati e riti sacrificali, dando vita ad un racconto tattile dell’orrore, perseguito con particolare fluidità nella sezione finale della narrazione. Se nei primi tre episodi non sempre la serie gestisce correttamente i singoli momenti di tensione, con tentennamenti nella gestione sia della messa in scena che dei toni, è nella seconda metà di racconto che Gannibal è davvero in grado di ottimizzare la matrice grandguignolesca del materiale originario, e delineare di conseguenza un mondo dalla natura eminentemente oppressiva. Dove ad uscirne cannibalizzato non è solo l’uomo e la sua integrità. Ma l’idea stessa che il seme della modernità possa germogliare in un villaggio folklorico come Kuge. Imbevuto fin nel midollo del carattere ritualistico della tradizione.

Titolo originale: Gannibaru
Regia: Shinzo Katayama, Hayato Kawai
Interpreti: Yuya Yagira, Show Kasamatsu, Riho Yoshioka, Mitsuko Baisho, Rairu Sugita, Kokone Shimizu, Seiji Rokkaku, Mitsuo Yoshihara, Yutaro Nakamura, Yoshi Sakou, Baijaku Nakamura, Kana Kita
Distribuzione: Disney+
Durata: 7 episodi da 34-69′
Origine: Giappone, 2022

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.7
Sending
Il voto dei lettori
3.5 (6 voti)
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