Gauguin, di Edouard Deluc

Dopo tre anni dalla sua uscita in Francia, arriva in Italia un biopic mirato sul maestro del post impressionismo. A interpretare l’artista è Vincent Cassel.

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Non è mai stato semplice rendere conto della vita – o come in questo caso di un periodo preciso – di un’artista e della sua arte. Ci aveva provato von Donnersmack, con il suo Opera senza autore, a raccontare del mistero che si cela dietro la creazione di un’opera d’arte derivata dalla memoria di un’artista. Ci hanno provato anche Stanley Tucci e Mike Leigh, raccontando di ossessività. L’ha fatto The Square, diventando installazione. E di recente c’è riuscito Julian Schnabel con Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità, che senza cedere al più intuitivo documentario ha provato a spiegare un’opera creandone un’altra, adoperando la creatività del mezzo filmico come mezzo per spiegare quella pittorica. Il film di Edouard Deluc; tuttavia, piuttosto che concentrarsi sull’astratto, lo fa attraverso ciò che si può osservare: sia il gesto di dipingere che quello di vedere sono catturati.

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1891. Artista incompreso, Gaugin lascia temporaneamente Parigi in uno dei momenti più poveri (non solo monetariamente ma anche e soprattutto dal punto di vista creativo) della sua vita, andando alla ricerca di stimoli e volendo allontanarsi da una Francia colonialista “con i suoi paesaggi privi di emozione”, partendo per Tahiti. È solo, abbandonato sia dalla moglie danese, che preferisce dare ai figli stabilità, soprattutto economica, che dagli amici, anch’essi famosi autori, che trovano soverchio un viaggio così lontano e precario. Ma proprio a Tahiti incontra Téhura, una giovane ragazza del luogo, con cui intraprende una relazione amorosa e che diventa prima sua moglie e poi la sua musa ispiratrice. La sua vita quotidiana e la sua relazione romantica con Téhura sono nel mirino della camera, dando spazio a quello che è il racconto del carattere di un uomo, che ne mette a nudo le debolezze – quali il non preoccuparsi della propria salute, l’abbandono di moglie e figli o il suo rapporto con le donne – che vengono interpretate negativamente, almeno in un primo momento. Nonostante ciò, Gauguin è anche – se non soprattutto – un film sull’arte, o per meglio dire su uno dei suoi più devoti adepti e maestri: l’arte come motore vitale.
Se in Opera senza autore il processo di formazione basato sull’esperienza empirica vedeva l’arte come mezzo di ricerca della verità, a cui si arrivava dopo aver provato la sofferenza, Gauguin porta in tavola il risultato del percorso di un uomo che ha visto nel primitivismo l’unica certezza dopo una vita di solitudine e incomprensione. Allo stesso modo di come il Van Gogh di Schnabel esibisce l’instabilità come carburante della sua genialità, il Gauguin di Deluc espone lo spirito rivoluzionario. Due film e due personaggi accomunati dal loro disagio esistenziale, ma al contrario che in At Eternity’s Gate, la visione di Deluc è più disincantata. Ma rimuovendo la parte più oscura dell’artista – famoso per la sua anarchia, che qua viene perlopiù romanzata – la follia di Gauguin non è esplicata abbastanza. Deluc non assolve il suo personaggio dai suoi difetti, ma nemmeno lo condanna, in una sorta di cinismo a metà: una visione che vuole mostrare l’uomo a tutti i costi ma che viene schiacciata dall’ingombranza dell’artista, che prende decisamente il sopravvento. Ne risulta così un ibrido controverso, un racconto pregno di disillusione che ostenta romanticismo (Téhura nella realtà aveva solo tredici anni).
Ed ecco che infatti la storia d’amore, che vuole essere il cuore del film, si pone in realtà come distrazione, non riuscendo nè a catturare la realtà nè il sogno.

Il regista, innamorato dei diari dell’artista in questione, intitolati “Noa Noa” e che hanno preso vita proprio a Tahiti fa diventare inconsciamente il viaggio, arrivato dopo il fallimento e che porta alla riscoperta dell’arte, il vero tema della sua ricerca. Il tutto è spiegato da una rappresentazione naturalistica, ove i paesaggi sono solenni, mostrati attraverso inquadrature che vedono gli uomini molto piccoli, quasi come intrusi; questo all’interno di scenari imponenti, messi in scena tramite campi lunghi e lunghissimi. Tutte inquadrature che cercano di catturare in fermo immagine ciò che probabilmente vedeva Gauguin e in particolar modo il come lo vedeva; una natura che fa da protagonista in innumerevoli frame e mostrata in tutti i suoi colori, in contrapposizione con la realtà di una civiltà borghese che colonizza e monetizza qualsiasi cosa, persino passione e il talento, rappresentata quindi con tonalità più scure, nell’uso del bianco e del nero opachi, quasi sporchi. Una natura aperta, libera, mastodontica, e una civiltà chiusa, soffocante. Questo è possibile anche grazie a una fotografia che nelle scene in notturna riporta a quelle suggestioni date anche dai quadri del pittore del post impressionismo, concedendo all’opera una tregua dall’essere fin troppo ordinaria.

 

Titolo originale: Gaugin – Voyage de Tahiti
Regia: Edouard Deluc
Interpreti: Vincent Cassel, Tuheï Adams, Malik Zidi, Pua-Taï Hikutini, Pernille Bergendorff
Distribuzione: Draka
Durata: 102′
Origine: Francia, 2017

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
2.33 (3 voti)
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