Gena Rowlands, una (anti)diva solitaria

Il suo segretissimo modo di affrontare la scena l’ha spesso mostrata inquieta, irregolare e libera. Il nostro ricordo dell’attrice statunitense scomparsa lo scorso 14 agosto.

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È forse Mabel ad essere placata nel bellissimo primo piano su Marion che, quattordici anni dopo Una moglie (1974)  di John Cassavetes, chiude Un’altra donna (1988) di Woody Allen? Nessuna apparente affinità tra questi due personaggi, ma solo quella vertiginosa presenza smarrita, ma anche fisicamente partecipe, di Gena Rowlands. I profili di due donne alla ricerca di una propria vera dimensione privata e al tempo stesso pubblica, perfino politica. In questa affinità elettiva a distanza di tempo questi due film sembra abbiano segnato il percorso da attrice di Gena Rowlands, scomparsa lo scorso 14 agosto a 94 anni. Un lavoro che era iniziato molti anni prima con il sodale marito e compagno John Cassavetes, inventori insieme di un cinema vitalissimo e fuori da ogni regola del successo in quell’area indisturbata dell’indipendenza produttiva che le major di Hollywood guardavano con sospetto.

Quel cinema così sperimentale dei primi anni Sessanta ci ha fatto scoprire due artisti irregolari, John e Gena che il fato e l’amore avevano fatto incontrare. Oggi quei film che insieme hanno elaborato in una sorta di indagine perenne sull’amore e sulle segrete radici della coppia, sui mali dell’esistere, resta non solo indimenticabile, ma segna a caratteri chiari la storia di quel cinema che non sa farsi dimenticare. Nasce da queste sensibilità un film come Ombre del 1959 fortemente influenzato da quella musica jazz che era al contempo tradizione nera e dunque condiviso contrappunto musicale ad ogni forma di discriminazione. Ombre si conforma a questo sentire, costruito come una jam session che si racconta nella sua attualità, in quell’impronta generazionale che si mescola al clima della beat generation. John e Gena condividevano già questi percorsi e davano vita ad un cinema inconsueto e debordante. Ma a questo titolo si aggiungono altri che confermano i teoremi del cinema di Cassavetes dentro i quali la soluzione era quella di portare in scena quell’amore così duraturo e per questa ragione Mariti del 1970 e Minnie e Moskowitz del 1971 appartengono a questa idea di racconto cinematografico diviso tra intimità e proscenio pubblico.

Il milieu dentro il quale la coppia di artisti formava la propria personalità e il loro cinema presto si sarebbe arricchito di nuovi personaggi, di nuove sensibilità con Ben Gazzara e Peter Falk e alla brigata si sarebbe aggiunto più tardi Seymour Cassel, che ha partecipato al Torino Film Festival nella retrospettiva dedicata al regista ricordando l’amico regista scomparso. Ancora una volta torna in mente Una moglie nel quale il dramma di un inizio di malattia mentale si risolve in quello spazio familiare della casa che diventa il palcoscenico al tempo stesso pubblico e intimo della coppia Mabel/Nick e nel quale a furia di esclusioni – per ultimo lo spettatore nella lunga sequenza finale – restano solo i due protagonisti assoluti in un atto irripetibile di condivisione. Cassavetes con la complicità della compagna sua attrice, va oltre il set e ricompone un reale rapporto, allarga lo spazio del visibile e nella claustrofobica costruzione delle lunghe sequenza espande il senso e lo sguardo. Non è cinema da camera, ma scandaglio di una relazione. Così come l’attrice ha saputo condividere con quel film, nato evidentemente per raccontare i legami coniugali piuttosto che la malattia, il senso complessivo di un’operazione amorosa, facendosi partecipe di un superbo lavoro di transfert in quella Mabel così fragile e così innamorata.

Tutto questo ci porta, parlando di Gena Rowlands, a ricordare la relazione indissolubile che ha occupato una parte grandissima della sua carriera. Ma soprattutto sembra ci porti a riflettere su quanto il suo segretissimo modo di affrontare la scena – dimessa nella sua relazione con la macchina da presa – l’abbia fatta sempre pensare come una (anti) diva solitaria, simile a nessun’altro, irregolare e libera. Forse è stata la sua formazione artistica plasmata sotto l’effetto di quel cinema formalmente libero e densissimo di relazioni sotterranee, cresciuto tra desideri di novità e ricerca di una identità nuova rispetto al mainstream culturale di quegli anni. È per questo che crediamo fortemente che il carisma attoriale di Gena Rowlands, tutto fuorché diva, tutto fuorché antidiva, si possa davvero rintracciare in quello spazio tra memoria e presente, tra scoperta di una propria identità sconosciuta e affezione amorosa che sa vincere anche la malattia mentale. Quello spazio ideale, in altre parole che Allen e Cassavetes le hanno disegnato attorno nei due film che forse segnano per sempre la sua diversità, la sua fortissima carica al contempo umana e d’attrice in quella spontaneità della recitazione che confina con la quotidianità del vivere. Una diversità che non la avvicinava allo star system, ma che al contempo non la riconosceva come una attrice del tutto controcorrente. È in questo stesso ambito che va annoverato La sera della prima (1977), sempre di Cassavetes, nel quale ancora una volta Gena restituisce allo spettatore il profilo di un’attrice in crisi d’amore e professionale che sembra scavare, di nuovo, in quello spazio diviso tra sentimenti privati e appartenenza pubblica, che sembra essere stato davvero il leitmotiv del cinema che l’ha vista protagonista insostituibile.


Ma il suo volto diviso tra una bellezza antica e la determinazione di una donna moderna, è riuscito a dare vigore anche a personaggi che sembrava dovessero ricucire il passato di un cinema glorioso con quel presente con il quale è sempre difficile confrontarsi. Nascono da derive esistenziali quasi difficili da contenere dentro lo spazio del cinema, tanto la carica emotiva sembra dissipare dall’interno le loro storie i personaggi di Una notte d’estate. Gloria del 1980 e Love Streams. Scia d’amore del 1984. Film, soprattutto il secondo, eccessivi che vivono dentro quella continuità del cinema di Cassavetes che sembra divorato dall’ansia di raccontare ciò che erode lentamente l’esistenza. Su questo stesso piano è il lavoro d’attrice di Gena Rowlands, vero esempio di simbiosi assoluta non solo legata dall’affetto maritale al proprio regista, ma intimamente partecipe di un mondo al contempo felice da vivere e faticoso da affrontare. I suoi personaggi camminano sempre su una specie di linea di confine che resta stretta in quell’area delimitata dai due film che la hanno vista assoluta protagonista nei ruoli apparentemente opposti, ma intimamente vicini, tanto che Marion e Mabel sembra quasi si possano sovrapporre in un ideale gioco evolutivo dei personaggi.


Scomparso Cassavetes, Gena, nonostante il cinema diretto dal figlio Nick (Una donna molto speciale del 1996 e She So Lovely. Così carina del 1997), non ha ritrovato quel vigore antico dei suoi personaggi, la forma artistica e vicina al reale, quel reale così frequentato dalle storie del marito regista o di quegli altri autori che hanno saputo dare forma alle sue inquietudini, alla sua complessa personalità che sapeva dividersi tra la bellezza di un cinema che sapesse raccontare il tormento dell’anima, tanto leggibile nel suo volto naturalmente inquieto, originariamente dolente.

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