"Genova", di Michael Winterbottom

genova
Michael Winterbottom si riappropria dell’intimità opprimente che aveva ispirato il suo 9 Songs per raccontare la perdita e l’elaborazione del lutto e, attraverso le immagini sporche, instabili, quasi rubate, di Genova e della vita che scorre attraverso la città, cerca di inseguire un’immediatezza e un’autenticità che invece continuano a sfuggirgli, ad essere altrove

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genovaMichael Winterbottom si riappropria dell’intimità opprimente che aveva ispirato il suo 9 Songs per raccontare la perdita e l’elaborazione del lutto e, attraverso le immagini sporche, instabili, quasi rubate, di Genova e della vita che scorre attraverso la città, cerca di inseguire un’immediatezza e un’autenticità che invece continuano a sfuggirgli, ad essere altrove. Sono tre i protagonisti di Genova, Joe (Colin Firth), che decide di trasferirsi in Italia dopo la tragedia che ha sconvolto la sua famiglia, e le sue due figlie – entrambe coinvolte nell’incidente d’auto che apre il film e nel quale perde la vita la loro madre – la giovane e fredda Kelly (Willa Holland), in fuga disperata dal suo dolore, e Mary (Perla Haney-Jardine), la più piccola che, incapace di accettare la morte e il vuoto da essa lasciato, insegue tra le strade di Genova il fantasma della madre. Attraverso la geografia instabile e ambigua della città ligure e del territorio circostante, con il fascino delle sue chiese buie e mute, con la bellezza sporca e minacciosa che esplode attraverso la trama claustrofobica dei suoi vicoli, con il suo verde accecante che si specchia nel mare ed è ferito da zone d’ombra nelle quali perdersi, Winterbottom tenta di rincorrere lo smarrimento che la morte ha proiettato sui suoi personaggi, ma il suo è uno sguardo superficiale, perso in una incertezza che manca di sincerità, incapace di emozionare veramente, uno sguardo che non riesce mai ad avvolgere i personaggi e a dar forma al loro dolore, al disorientamento e alla loro incapacità di affrontare l’assenza. Lo stordimento e la solitudine di Joe, il suo timido volgersi di nuovo alla vita, che Colin Firth restituisce con una stanca piattezza, la sua incapacità di calmare il dolore delle sue figlie e le sue frustrazioni rimangono inespressi, intrappolati nell’errare frammentato e discontinuo di Winterbottom, che vuole raccontare troppo e finisce per perdersi nell’accumulo dei percorsi intrapresi, senza riuscire mai a renderli vivi, pulsanti. Rimane distante e mal delineato il tentativo di dare forma al senso di oppressione che soffoca Kelly, come anche rimane solo appena accennata la delicata fragilità che affiora oltre la durezza che scolpisce il suo volto e l’indifferenza dietro la quale cerca di nascondersi e di difendersi. E anche il personaggio – la piccola e spaventata Mary – che Winterbottom sembra amare di più, al quale conferisce un ruolo centrale nel film, non possiede alcuna intensità o spessore, e la colpa nella quale è intrappolata Mary (responsabile dell’incidente), la sua impossibilità di lasciar andare sua madre non vibrano mai sullo schermo, lasciando solo un senso di sterile incompiutezza.

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Titolo originale: id.
Regia: Michael Winterbottom
Interpreti: Colin Firth, Perla Haney-Jardine, WIlla Holland, Hope Davis, Alessandro Giuggioli

Distribuzione: Officine Ubu
Durata:
94'
Origine: UK, 2008

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