Genus Pan, di Lav Diaz

Una parabola di autodistruzione nell’intricata matassa dei miti e delle credenze. Tra l’oralità e la rappresentazione, la bestemmia e l’invocazione. In Orizzonti

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L’uomo, discendente prossimo dello scimpanzé, ha conservato il Genus Pan, il gene originario. È fondamentalmente rimasto al livello animale, con tutti gli impulsi e i comportamenti che ne conseguono. La violenza, l’aggressività, la difesa dei propri interessi, del territorio e dell’esclusività del gruppo, l’egoismo, la rapacità, l’istinto di sopravvivenza. Il che si traduce nell’innata bestialità degli esseri umani, in secoli e secoli di sangue versato, di sopraffazioni, guerre, omicidi, tradimenti. Quando gli istinti del Genus Pan prendono il sopravvento nelle foreste di Hugaw, anche lì si innesca una spirale di morte. A cui non sfuggirà nessuno.

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Ancora una volta, sempre più, Diaz sembra andare alla ricerca di un’indagine sulle forme della storia e sulle modalità della sua narrazione. Innanzitutto il racconto orale, che attinge alla dimensione della memoria e del mito, che insegue la traccia letteraria o la credenza popolare. Il giovane Andrés attraversa le foreste di Hugaw insieme a Baldo e Paulo, i gemelli geko cresciuti in un circo, per andare in miniera e tornare a casa dopo le “brutte” fatiche. E a ogni sosta, a ogni bivacco e ubriacatura, è tutto un proliferare di storie sul passato e sui demoni di Hugaw, sulla violenza dei conquistatori, sui soprusi giapponesi, sulle dittature del presente, su cavalli neri maledetti e su Clown orchi crudeli. Ma anche prima e dopo, nel villaggio, ogni vicenda è innanzitutto il motivo di un racconto, o, al limite, di una rappresentazione davanti a un coro tragico. Questa oralità, in fondo, è un’ossessione costante di Diaz, centro assoluto anche di A Lullaby to the Sorrowful Mystery e del Leone d’Oro The Woman Who Left. Ed è qualcosa che sta tra l’economia dell’azione (e della produzione) e la consapevolezza che esiste una sfera a cui l’occhio non può arrivare. Poi, all’improvviso, dopo vari segni di tensione, il gene impazzisce e la violenza irrompe sullo schermo, alterando l’indifferente, secolare fissità di quelle inquadrature di Diaz, di quella giungla ancora non contaminata eppur non innocente. Le immagini si mettono in movimento, ma anche quando il digitale perde di definizione, la prospettiva si schiaccia e si storce e la macchina si fa traballante nella concitazione della lotta, l’evento torna comunque a questione di strategia della narrazione. Le differenze nella versione dei fatti aprono la strada a una girandola di flashback alla Rashomon e lavorano ai fianchi della verità. Mentre la concretezza dell’azione si sospende nell’esplicita teatralità del gesto Come a ribadire, ancora una volta, la fatica di trovare nell’orizzonte dello sguardo un evento risolutore, qualcosa che sia un vero cambiamento, oltre il mimo e la rappresentazione, oltre la ripetizione delle formule, degli errori e degli orrori.

Ecco. Lav Diaz compone una parabola di autodistruzione e ancora una volta entra nell’intricata matassa dei miti e delle credenze. Personaggi segreti e figure che attraversano i secoli e si intrecciano nella cultura di un popolo. Un cavallo che potrebbe essere la nuova reincarnazione di un Tikbalang e Paulo che prega come un Cristo in croce. E parla dell’uso politico di tutto questo “patrimonio”, esattamente come proietta il politico nell’orizzonte mitico di personaggi mostruosi, di icone demoniache. E stiamo nel caos in cui la liberazione dalla cecità della fede diventa blasfemia, mentre la bestemmia assomiglia a un’invocazione disperata. Alla fine, la risata del Clown risuona nella foresta, a sancire l’ineluttabile eternità del male. Eppure, come dice il professore alla radio, straordinario inserto brechtiano, l’evoluzione non è ancora compiuta. L’uomo può ancora arrivare ad essere Gandhi, Buddha, Cristo. In un’altra isola, forse, molto più lontana.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
3 (2 voti)
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