GERMANIA 2006 – L'urlo

L'urlo di Thierry Henry dopo il gol alla Corea del Sud, è un urlo di esultanza e di smarrimento, di sofferenza fisica e di piacere, un urlo che riempie lo spazio del gesto e della voce con un chiasmo di emozioni liberatorie che rompono il silenzio, materializzando un sentire a lungo soffocato.

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Il continuo succedersi del tempo, in cui si è immersi, rende invisibile quel che la spaziatura cerca di catturare, pretendendo di arrestare l'immagine nell'instante in cui si fissa sopra l'esistenza. Frammenti non ricomponibili, privati di senso nel momento stesso in cui sono sottratti alle loro occasioni: lo scorrere stesso della vita; proprio come quelle inquadrature chiuse che impediscono di afferrare il visibile nella sua pienezza. Talvolta per superare tale limite non rimane che tagliare, incidere o raschiare le superfici, come hanno fatto Mario Fontana con la pittura e Stan Brakhage con il cinema, per poter guardare ciò che si nasconde oltre la pelle dei quadri o delle inquadrature e penetrare il fondo oscuro di quella ferita dalla quale si fluisce come intimità. Immergersi in quella profondità che comunica aspirazioni, piaceri, dolori, amori, paure, sconfitte, rabbia e desideri erranti lungo i "piani" del possibile e dell'imprevedibile, diventa quasi una necessità "delirante", scavata nell'illusione di uno squarcio che si vorrebbe circolare e, quindi, senza limiti. Come esperire allora la forza inespressa di una, sia pure sola, immagine del desiderio o il vedere da comprendersi come un "avere a distanza"?, ricordando e (ri)accordando le immagini in un personale montaggio, ritessuto di quelle volute e velate dissolvenze che accettano di "contenere" i corpi visti e vissuti; ma anche accogliendo l'esilio come assenza di una dimora da ricostruire in vista della riappropriazione, nella "parusia", nella presenza a sé dei corpi amati. Una seduzione dell'inespresso e della mancanza che vuole oltrepassare il pensiero di una memoria che fa del fermo immagine un rito cultu(r)ale, capace solo di esperire la morte. Anche nel calcio, quello giocato, quello visto e rivisto in questi giorni, vorremmo che fosse lo stesso.

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Non potrebbe essere altrimenti per chi ha visto la partita di domenica sera, quella giocata, al Zentralstadion di Lipsia, tra la Francia e la Corea del Sud, e finita in pareggio. A Lipsia la Francia ha sconfitto la "maledizione del gol", erano 369' che non segnava in una fase finale dei mondiali (dalla finale del 1998 vinta per 3 a 0 contro il Brasile, il terzo gol di Petit arrivò al 90° minuto), in tutto quattro partite (le tre del catastrofico girone di Giappone/Corea 2002 e la prima di questi mondiali, chiusa in parità con la Svizzera, ma senza reti) più i primi 9' della sfida contro la Corea, quando Thierry Henry sfruttando un tiro deviato di Wiltord ha battuto, da pochi metri, Lee Woon Jae. Ma la Corea, classificata, nel mondiale del 2002, tra le quattro migliori squadre del mondo, all'80° minuto ha ripiombato la Francia in quel limbo, dal quale il gol di Henry l'aveva sottratta, costringendola a cinque gare senza vittoria e stendendo sui transalpini l'incubo di una nuova eliminazione, proprio come quella subita nel precedente mondiale. Decisiva, per il passaggio agli ottavi, sarà la partita contro il Togo. Ma questa squadra, proprio come in un bel film di Jean Luc Godard o di Françoise Truffaut, fa del campo di calcio il luogo narrazione dove si manifestano percorsi di riscossa e di resistenza, sentimenti di riscatto e di compassione, intermittenze e aritmie che si sintonizzano sul pulsare del tempo (i tanti, pochi 90' di un'intera partita) ed una energia fisica, così misurata e intensa, che resta la sua cifra costitutiva, cui fanno da corollario i singoli episodi: il cartellino giallo a Zinedine Zidane (che potrebbe chiudere qui la sua carriera in caso di mancata qualificazione agli ottavi), il colpo di testa di Vieira parato (oltre la linea?) dal portiere coreano, ma soprattutto l'urlo di Henry dopo il gol, un urlo di esultanza e di smarrimento, di sofferenza fisica e di piacere, un urlo che riempie lo spazio del gesto e della voce con un chiasmo di emozioni liberatorie che rompono il silenzio, materializzando un sentire a lungo soffocato.

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