GIFFONI FILM FESTIVAL 39 – "The Greatest", di Shana Feste (Concorso)

The Greatest

Nelle stanze ormai desolate di casa Brewer aleggia lo spettro di Gente comune di Redford. Ma si avverte, per riflesso, anche la voce segreta e sublime del cinema di Silberling. La regista torna al tema necessario del lutto e racconta la perdita come una tragedia doppia. Perché travolge il visto e l’invisibile, il conosciuto e l’ignoto, ciò che abbiamo visto nascere e ciò che abbiamo sfiorato appena, un giorno, per caso

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The GreatestOgni ruga è un segno del passato. Ogni giorno si apre una lieve crepa che sfibra il tessuto della pelle e dei ricordi. La perdita è una frattura dell’anima, un taglio che lacera i cuori di chi resta e che spalanca un abisso nell’esile trama delle relazioni. E’ un’inquadratura immobile e muta, alla fine di un funerale. Come ricucire la tela strappata? “Non si può regalare un cucciolo a chi ha perso un cane”. Il dolore è irreparabile. Rimane lì, come una macchia sbiadita che congiura contro l’innocenza del bianco.
Shana Feste, al suo esordio nel lungometraggio, ritorna con The Greatest (già presentato al Sundance Festival e a Karlovy Vary) al tema necessario del lutto. Ed è come soffiare su una ferita destinata a non rimarginarsi mai. La famiglia Brewer è sconvolta dalla tragica morte del primogenito Bennett. Finché non bussa alla porta una ragazza, Rose, che rivela di essere incinta del ragazzo. E’ un altro terremoto. Perché costringe ogni membro della famiglia, padre, madre, fratello a uscire dalla solitudine forzata e confrontare il proprio dolore con quello altrui, a interrogarsi sul meraviglioso e crudele mistero di una vita che va avanti, nonostante la congiura del tempo e della morte. Ed è tra i silenzi e i rimpianti, i dubbi e le recriminazioni, che si fa strada l’amore con la sua impalpabile densità e la sua dolorosa vertigine. Nelle stanze ormai desolate di casa Brewer aleggia lo spettro di Gente comune di Redford, come ammette la stessa regista. Ma si avverte, per riflesso, anche la voce segreta e sublime del cinema di Silberling, come se ci trovassimo di fronte all’eco di Moonlight Mile (e non a caso, ancora una volta c’è Susan Sarandon nei panni della madre). E ancora, in sottofondo, si percepisce una vibrazione, il pianto sommesso di ognuno, quel lamento trattenuto che testimonia della propria ferita e del proprio paradiso perduto. Non c’è nascondiglio negli angoli bui. Il cinema obbliga a mostrare il fianco e trapassa gli occhi fino alle lacrime. Nello spazio breve e immaginario della visione riconosciamo i nostri fantasmi. La presenza latente di ciò che è stato caro e che si materializza in un luogo, in un suono, in una canzone, nel corpo di un attore: Pierce Brosnan, con l’intensità della sua emotività trattenuta, Susan Sarandon, sempre più ‘essenziale’, Michael Shannon che ad ogni film appare come una splendida meteora che, in pochi minuti, rivoluziona e ridefinisce l’asse del mondo. Ma la Feste non si accontenta di riportarci ai nostri riti funebri. Mette a frutto la lezione di un mostro sacro come Robert Towne (lo sceneggiatore di Chinatown) e si affida alla sensibilità e alla precisione impietosa della propria scrittura. Si muove tra le cose e le persone con una discrezione pudica e racconta anche ciò che ci siamo lasciati sfuggire, ciò che non abbiamo colto se non per un breve, irripetibile istante, un passato mai vissuto, da inventare nelle storie frammentarie dei testimoni e da ricostruire a stento. La perdita è sempre una tragedia doppia. Perché travolge il visto e l’invisibile, il conosciuto e l’ignoto, ciò che abbiamo visto nascere e ciò che abbiamo sfiorato appena, un giorno, per caso. Restano poche parole a rimpiazzare l’assenza. Immagini sconnesse, da montare e rimontare secondo le linee del desiderio, almeno fino al giorno in cui anche la memoria sarà vinta dalla morte. Ma, forse, più di tutto resta l’amore, una scia di fuoco che scorre e si tramanda.   
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