#Giffoni2017 – Amy Adams incontra i giffoners

L’attrice americana riceve il Giffoni Experience Award 2017. Un’occasione per parlare della sua carriera, dei personaggi che ha amato e dei registi con cui ha lavorato. Da Aviano ad Hollywood

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L’ispirazione la traggo dal mondo e dalle persone che mi circondano, dal modo in cui parlano e si esprimono, da quello che sono e da come appaiono”.

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Oltre il Blue Carpet. Disponibile, sorridente, fasciata in un leggero abito estivo variopinto che la rende simile ad un fiore, la prossima quarantatreenne (il 20 agosto) Amy Adams (LEGGI QUI un approfondimento di Sentieri Selvaggi di qualche anno fa) sembra divertirsi come una ragazzina tra le ali acclamanti dei giffoners provenienti da ogni angolo del pianeta, semplici fan o membri delle diverse giurie suddivise “per età” di questa quarantasettesima edizione del Giffoni Experience. Sono quasi coetanei, la splendida attrice americana dagli italici natali (è nata a Vicenza, dove il padre all’epoca era un militare dello United States Army di stanza alla Caserma Ederle, ed ha trascorso i primi tre anni della sua infanzia ad Aviano, per poi trasferirsi con la famiglia di base in base, fino a stanziarsi all’età di nove anni a Castle Rock, in Colorado) e la

gif critica 2 rassegna cinematografica del piccolo centro salernitano: eppure non mostrano affatto i segni del tempo, sarà che a Giffoni l’entusiasmo e la magia (tema di questa edizione) della giovinezza sono di casa. Sullo schermo della “Sala Truffaut” scorre un medley di immagini tratte dalle pellicole che l’hanno vista protagonista e a cui fa seguito una rassegna di attestati di stima e di affetto da parte dei giffoners con il loro caloroso benvenuto nella “Cittadella del Cinema”: Il Dubbio, di John Patrick Shanley (2008); Prova a Prendermi, di Steven Spielberg (2002); Come d’Incanto, di Kevin Lima (2007); Arrival, di Denis Villeneuve (2016); Batman vs. Superman: Dawn of Justice, di Zack Snyder (2016); American Hustle, di David O. Russell (2013).

Cinque nomination all’Oscar, due Golden Globe vinti, l’esordio sul grande schermo nel 1999 in Bella da Morire con Kirsten Dunst, Amy Adams ci farà presto compagnia al cinema con Justice League di Zack Snyder, quinta pellicola del DC Extended Universe. E non è tutto: mentre è in fase di lavorazione il progetto di un biopic su Dick Cheney diretto da Andy McKay (con la Adams nella parte della moglie dell’ex vicepresidente Usa), Amy indosserà le vesti di protagonista della nuova serie drama/noir diretta da Jean-Marc Vallée, Sharp Objects.

Giffoni Film Festival 2017 - Day 5Amo l’Italia, la amo al punto che il nome di mia figlia, Aviana, viene dal comune di Aviano in provincia di Pordenone, sede della nota base militare statunitense. Nella gente di questa terra c’è un’apertura unica, un’ospitalità eccezionale. Ti senti accolto da tutti, la gente ti fa sentire a tuo agio come se fossi a casa tua. Tutte le volte non vedo l’ora di tornare. È proprio questa peculiarità del popolo italiano a farmi amare così tanto il vostro paese”, sottolinea la Adams di fronte all’immancabile domanda sul legame con il Bel Paese. A Giffoni per ricevere il Giffoni Experience Award 2017, l’attrice ascolta con attenzione e con un pizzico di rapita emozione le domande della giuria cinematografica più giovane del mondo ed affronta svariati argomenti, dalla danza al musical, dalle difficoltà sul set al rapporto con i registi, passando per l’approccio ad una sceneggiatura e la propria idea di cosa sia “magia”.

Ho lavorato con registi importanti e molto diversi tra loro. Sicuramente ho avuto un feeling eccezionale con l’ultimo regista con il quale ho lavorato, Denis Villeneuve, una persona davvero speciale e capace di creare sul set un’atmosfera altrettanto speciale ed estremamente intensa. Quanto ai registi con cui mi piacerebbe confrontarmi in futuro, dico Patty Jenkins, la regista di Monster (2003) e Wonder Woman (2017). Ecco, penso che con lei si potrebbe fare qualcosa di davvero divertente”.

L’attrice si sofferma a descrivere le sensazioni provate nell’interpretare la linguista Louise Banks. In Arrival la Adams ha raggiunto un’empatia straordinaria con il personaggio al punto che diventa difficile tracciare una linea di separazione e capire quando Amy è Louise e quanto di Louise ci sia in Amy. E racconta al pubblico di come il messaggio di cui la pellicola tratta sia stato determinante nella scelta del ruolo. “Una delle cose che mi ha attratto era proprio questo messaggio: un appello alla coralità, alla unità fra etnie, tradizioni e mentalità diversi, allo spirito di collaborazione tra i popoli. E ancora, il desiderio di andare oltre le guerre e di trovare il modo di lavorare insieme per trovare una strada di sopravvivenza comune. Certo, si tratta di una visione idealistica. Al momento però non è questa la strada che ha preso il mondo, spero che la vostra generazione, e quello che vedo qui a Giffoni già mi rende fiduciosa, sarà in grado di agire in modo diverso, prendendo la strada giusta, quella di un’opera corale. Non mi deludete, dovrete essere voi a realizzare questo sogno”.

Nel corso della sua carriera, la Adams ha dato prova di essere un’attrice poliedrica, con una filmografia caratterizzata da ruoli estremamente diversi che ne testimoniano la grande versatilità interpretativa. Quale criterio usi nel selezionare un ruolo: cerchi una connessione mentale e spirituale con il personaggio che ti viene offerto oppure badi piuttosto al messaggio che la pellicola, tramite il personaggio, intende trasmettere al pubblico? “Cerco immediatamente una connessione, un contatto con il personaggio. Devo sentirne distintamente la voce dentro, in profondità, ho bisogno di sentirlo parlare attraverso di me. Naturalmente leggo molte sceneggiature e la reazione giusta arriva quando sento vibrare questa voce nella mia testa e capisco di essere in grado di esprimerla. E ora che sono più adulta, cerco personaggi che veicolino messaggi che possano in qualche modo essere d’aiuto anche per gli altri, attraverso le esperienze che vivono”.

1ea5e128-a310-11e6-82f5-550f6e7ecfc6-640x400C’è un ruolo che, a giudicarlo con il senno di poi e con una diversa maturità artistica, senti che non ti appartiene o che comunque non rifaresti? A questa domanda Amy dà una risposta apparentemente sibillina, ma in realtà, pur non citandolo direttamente, conferma e racconta le difficoltà incontrate durante la lavorazione di American Hustle e i conflitti avuti con il regista David O. Russell: “C’è un film di cui ho parlato tante volte, e che oltretutto è tra i più popolari che ho fatto, che per me ha rappresentato un’esperienza tutt’altro che facile. Tuttavia, rifarei anche questa esperienza perché è stata comunque molto importante. Ho avuto difficoltà a girarlo, è un film che mi ha davvero logorato perché arrivavo a sera così tesa e carica di tensione che avevo paura di non poter dare la parte migliore di me alla mia famiglia, a mia figlia. Ma questa esperienza mi ha anche insegnato a lavorare in un modo diverso, a gestire meglio il mio tempo e la mia emotività e a separare il lavoro dalla vita privata. Sì, è stato davvero molto faticoso per cui posso rispondere che è un ruolo che non rifarei, ma dal momento che è andata così cerco di cogliere il lato positivo e trarre profitto da ciò che mi ha insegnato”.

Dapprima la danza, poi il teatro. Ma, in fondo al cuore, la fiamma ardente della vocazione cinematografica e il desiderio di diventare attrice. Di tempo ne è passato e di tempo ne ha avuto bisogno, la Adams, prima di prendere progressivamente fiducia in se stessa e di “sentirsi” davvero attrice. Danza e recitazione: entrambi dei mezzi espressivi molto potenti e significativi. E se risulta difficile scegliere quale sia il più congeniale alla propria indole, tanto vale creare una feconda osmosi e portare nell’una le prerogative performative dell’altra: “Ho iniziato con la danza ed è stata proprio la danza lo strumento che mi ha permesso di tirare fuori la capacità di esprimere delle emozioni senza il supporto della parola. Diciamo che la danza mi ha aiutato ad articolare le mie performance in maniera più creativa e comunicativa possibile e nella recitazione spero di aver fatto tesoro di questa esperienza pregressa. E poi, se vogliamo, si può dire che faccio l’attrice grazie ad un esame di chimica che non ho passato al liceo. Ho capito allora che non sarei mai diventata medico, come inizialmente pensavo, e ho iniziato a concentrarmi sulle arti performative”. E la magia? Cosa è la magia per Amy Adams? “Quanto alla magia, trovo che essa si trovi nei piccoli momenti della quotidianità, quelli speciali che ti fanno sentire felice ed in equilibrio con te stesso. Tutti ne abbiamo bisogno, sono momenti che passano in un baleno ma che dobbiamo sforzarci di trattenere nel nostro spirito e nella nostra memoria”.

Sono stati numerosi i momenti difficili, racconta ancora l’attrice, specie all’inizio della carriera. Allora si è giovanissimi, inesperti ed immaturi, è un momento in cui è sufficiente un giudizio negativo o un rifiuto per scoraggiarsi e perdere fiducia e stimoli. Alle prime armi un attore vive questi momenti con maggiore ansia e può arrivare a farne un dramma e a rimettere tutto in discussione. Ma anche nel prosieguo di una carriera è importante fare delle pause, fermarsi di tanto in tanto e tracciare una sorta di bilancio, un punto della situazione. Soprattutto, bisogna chiedersi: “È davvero lì dove voglio che la mia carriera sta andando?”. D’altra parte il successo è una questione molto personale, non è detto che chi è famoso e ha successo sia una persona soddisfatta di se stessa.

C’è stato un personaggio che hai amato immediatamente e in cui ti sei riconosciuta in quanto Amy Adams e non in quanto attrice? “Sono stati ben tre i ruoli che ho voluto a tutti i costi e a cui mi sento molto legata. La protagonista di Come d’Incanto, Giselle (leggenda vuole che quando la Adams lesse il copione disse all’uomo che poi sarebbe diventato suo marito – l’attore Darren Le Gallo – che non poteva immaginare nessun’altra attrice che potesse interpretarlo), ma anche il ruolo di Ashley Johnsten in Junebug (di Phil Morrison, 2005), per cui ho avuto la mia prima candidatura agli Oscar, e quello di Louise Banks in Arrival. Sono molti i parametri che un attore prende in considerazione nell’approcciare ad un ruolo, a cominciare dal regista, dalla troupe tecnica e dal cast artistico. Per quanto mi riguarda, il fattore decisivo è la voce del personaggio, ciò che questi mi dice personalmente e che non trovo scritto nel copione. Alcuni personaggi mi hanno cambiata o profondamente influenzata. Soprattutto, mi ha influenzato il girare quel film che parla di quel personaggio: avvicinarmi alle esperienze di persone le cui storie ho interpretato e raccontato per il cinema, parlare con loro, immedesimarmi. Sono una persona estremamente emotiva, mi emoziono molto quando penso alle persone di cui ho avuto il privilegio di raccontare la storia e di portare il messaggio al pubblico”.

amy-adams-american-hustleNon mancano momenti di ilarità e passaggi più easy, come quando la Adams glissa sulla sua prima audizione (“per carità, un’esperienza terribile”) o come quando, alla domanda se ci sia qualcosa che non rifarebbe nella vita, risponde divertita: “Certo, non uscirei con un paio di ragazzi”. Ma anche queste battute costituiscono un momento a loro modo necessario per veicolare alla giovanissima platea di Giffoni un messaggio ad aspiranti attrici, in particolare, e ad aspiranti donne che non hanno ruoli da interpretare su un set ma una vita da affrontare, più in generale: bisogna imparare dai propri errori, guai a prendere i rifiuti e i giudizi negativi come una questione personale: il segreto è andare avanti, insistere e studiare. “Ci sono, certo, momenti dolorosi ed esperienze traumatiche che uno vorrebbe non aver vissuto, ma penso che in fondo rifarei tutto, perché tutto ciò che ho vissuto mi ha portato ad avere uno splendido marito ed una bellissima figlia e mi ha portato anche ad essere qui con voi, adesso”.

In chiusura, prima di ricevere il premio, la Adams, sollecitata da una domanda sulla spinosa questione del sessismo e del maschilismo nell’ambiente hollywoodiano, dice la sua sull’argomento: “Quanto al maschilismo non penso sia solo ad Hollywood, ma credo sia un problema molto più profondo e diffuso. Dobbiamo rispettare come donne il fatto che le nostre scelte e le nostre barriere vengono da esigenze profonde e non dobbiamo commettere l’errore di sacrificarle per far felici gli altri. Vi racconto questo aneddoto. Parlando tempo fa con un mio collega uomo si discuteva se accettare o meno di girare una determinata scena. Lui mi disse: Beh, semplice, dici di no! Per lui un no era una normale risposta, secca e definitiva; per me era solo l’inizio di una conversazione. Vedete quanto può essere diverso un semplicissimo no per come lo intende un uomo e per come lo intende una donna?”.

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