#Giffoni2018 – Ant-Man & The Wasp, di Peyton Reed

E’ davvero ancora possibile realizzare un marvelmovie allegro e scanzonato dopo Infinity War? La comicità gentile di Paul Rudd e la smaccata natura cinefila del film servono da veicolo defaticante

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E’ probabile che non sia mai esistita su schermo planetario prima di questo 2018 una lingua così lontana dal cinema-as-we-know-it come quella di Avengers – Infinity War: l’orizzonte dei riferimenti, in quello che è senza ombra di dubbio un tassello capitale e imprescindibile della storia dell’industria dell’entertainment, appartiene infatti ad una serie di universi posti in origine a distanza lontanissima dal canone hollywoodiano di prodotti di questo tipo, e molto più vicini a concezioni da megaproduzione cinese/tollywoodiana, o a meccanismi da RPG (più passa il tempo e più lo sfortunato Warcraft di Duncan Jones si rivela titolo profetico, in quest’ottica, anche se in La battaglia delle cinque armate, che nessuno già ricorda, Jackson non andava a finire poi così lontano da qui…). Un gioco in ruolo in cui di ogni personaggio vale unicamente conoscere il punteggio raggiunto nella difesa e nell’attacco, per vederli poi combinarsi in azione. Come hanno notato in parecchi, il vero reale “giocatore” di Infinity War è il solo Thanos, e la sua parabola a tappe di battaglie contro i vari supereroi per guadagnare le Gemme.
Difficile tornare indietro – e forse anche riuscire a proseguire – dopo una dimostrazione così imponente e perentoria di azzardo e rilevanza, che costringe all’attenzione anche chi, passata l’iniziale diffidenza, all’MCU aveva sempre guardato con un distratto sorriso di simpatia, e poco più.
Ecco, diciamo subito che Ant-Man & The Wasp sostanzialmente prende tempo (una pratica d’altronde anche questa figlia delle storie filler dei fumetti), mentre porta avanti la propria continuity interna che mescola le trame originali non solo dell’eroe formica e della sua partner in miniatura ma anche di Giant-Man, Red Queen, Black Goliath e Egghead, quest’ultimo il padre di Ghost, la villain di quest’avventura col volto magnetico di Hannah John-Kamen, la Zandor di Ready Player One, vera e genuina sorpresa del lotto.

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Intuiva bene Di Porto ai tempi del primo episodio, sempre diretto da Peyton Reed: in qualche modo i film di Ant-Man rappresentano per i Marvel Studios una sorta di rassicurante, familiare ritorno ad un linguaggio più apertamente cinematografico-cinefilo – la storia dei generi fantastici-orrorifici è d’altra parte piena di uomini rimpiccioliti e animali di dimensioni gigantesche, e Reed chiarisce subito la legacy con l’inserto da Assalto alla Terra che i protagonisti guardano in tv (in una sequenza precedente, in tv sta passando invece Animal House, in omaggio probabilmente all’anima più grottesco-distruttiva del film). La comicità gentile di Paul Rudd serve dunque proprio come veicolo defaticante,

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l’empatia e la complicità con il suo Scott Lang e gli sketch con Michael Peña lavorano sulle stesse corde della San Francisco subito riconoscibile illuminata da Dante Spinotti, il quale filma con la consueta abilità uno straordinario inseguimento multi-size che si aggiunge all’elenco delle acrobazie a quattro ruote girate nella storia di Hollywood per le strade scoscese della città (ancora, un riferimento cinefilo).

La vera domanda è però se è ancora possibile realizzare un marvelmovie allegro e scanzonato dopo Infinity War, ed è la stessa che si staranno ponendo probabilmente per il terzo Guardians of the Galaxy (la risposta è ancora più difficile oggi dopo l’affaire James Gunn…).
Se c’è una cosa che proprio le avventure dei guardiani ci hanno insegnato, insieme a Ragnarok e, ancora una volta, all’ultimo titolo dei Russo Bros, è che queste produzioni danno il meglio di sé quando dipingono realtà dalle fattezze completamente inventate, pura psichedelia spaziale su di giri per i pianeti e le galassie, l’unico espediente in grado di restituire davvero sullo schermo l’esperienza liberatoria di sfogliare le pagine di quei giornaletti da ragazzo, per riempirti gli occhi di meraviglia. Anche stavolta, la voglia irrealizzata resta allora quella di un viaggio di Ant-Man interamente ambientato nel Regno Quantico, strabiliante dimensione lisergica governata dall’apparizione magnifica di una Michelle Pfeiffer bianca guerriera decisamente più memorabile del blando apporto della “figlia” Evangeline Lilly, interprete che non sembra mai entrare realmente in partita.

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