Giovanni Ribisi, la variabile "monocromia" del corpo.

Il giovane attore americano nasce al cinema in una placentare assenza di luce, per poi, svelarsi attraverso le traccie di mutevoli e ricche coloriture in cui saprà di volta in volta dissolversi, tracce tangibili dell'incontro del "colore" con i corpi, del corpo che si "incarna" nel "colore", nella variabile monocromia del corpo/cinema.

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"Il giallo è un colore caldo: si muove verso l'osservatore irradiandosi centrifugamene… L'azzurro è un colore freddo si allontana da chi guarda… Il verde non ha alcuna pretesa: non lancia appelli di alcun genere, è soddisfatto di sé, limitato come un piccolo borghese… Il nero è il nulla senza possibilità. Ogni altro colore contornato dal nero risulta più forte, come un suono emesso nel grande silenzio… Il grigio ha una tranquillità sconsolata, con una debole speranza. Nel rosso c'è fragore e fiamma, è forza virile." (Vasilij Kandinskij)

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Giovanni Ribisi nasce al cinema nell'oscurità, in quella placentare assenza di luce, in cui il cinema si bagna. E' il 1996 e il film è Strade perdute di David Lynch. A metà film c'è una sequenza nella quale il corpo di Ribisi sembra vacillare davanti alla fissità della macchina da presa, prima di perdersi nella successione di pochi fotogrammi. Attimi, istanti di un tempo avvolto dall'oscurità di un cinema, quello di Lynch, assorbente i corpi nel fantasma di un sogno/incubo ossessivo, riflesso dallo svanire continuo dell'esistente nell'iride luminosa del nostro sguardo. Ventiquattro fotogrammi al secondo, un tempo di gestazione minima per coagulare nel grumo fremente di una inconfondibile penombra, dalla quale sembra bandita ogni luminosa redenzione romantica, vanamente ricercata dentro e fuori l'immagine. Giovanni Ribisi appare in un corpo inquieto, oscuro e selvaggio come quello di a rebel without a causa e sembrerebbe doversi perdere nelle encauste bruniture, offuscanti le traiettorie dello sguardo e rispecchiate in una (in)visibilità filmica, in cui si può (solo) fingere/giocare/ alludere la propria presenza. Ma il giovane Ribisi è pronto ad esplodere, svelarsi, offrirsi al (suo) pubblico attraverso la traccia di una variabile monocromia, nelle cui mutevoli e ricche coloriture saprà di volta in volta dissolversi. Un corpo richiamato dal buio delle sue negazioni/assenze per scoprirsi come sogno, attesa, promessa in quella/questa eterna illusione che è il cinema. Antonino Giovanni Ribisi nasce a San Francisco il 17 dicembre del 1974, figlio della produttrice Gay Ribisi e fratello gemello di Marissa, anche lei attrice. Giovanissimo comincia ad apparire in diversi spot pubblicitari e nel 1985 compare in due episodi della serie televisiva Highway to heaven (è il piccolo Curtis Johnson, un bambino malato di cancro). Nel decennio successivo partecipa a diversi serial tv, tra cui Ai confini della realtà, Walker texas ranger, NYPD blue e Xfiles. Il 1994 è l'anno della notorietà presso il grande pubblico grazie al ruolo di Frank Buffay jr., fratello di Phoebe Buffay in Friends. L'anno successivo è nel cast di The Outpost, un horror claustrofobico diretto da Joe Gayton e sceneggiato da Jonathan Craven (figlio del noto regista Wes Craven), nel 1996 è tra gli interpreti di Music Graffiti, opera prima come regista di Tom Hanks, e di Suburbia diretto da Richard Linklater, quindi, nel 1999 è il protagonista della commedia romantica Un amore speciale di Garry Marshall. Music Graffiti e Un amore speciale sono film percorsi da una varietà di colori, da quelle pastello degli anni sessanta e quelle trasognanti degli anni novanta. Una vivacità pronta a sbriciolarsi e a ricomporsi attraverso la frammentaria monocromia di una maggiore consapevolezza di sé.

Nel 1998 il corpo di Giovanni Ribisi emerge dal grigio indefinibile del film di Steven Spielberg, Salvate il soldato Ryan. Illuminato dalla stupenda fotografia di Janusz Kaminski, il giovane Ribisi esce dal buio placentare del cinema esponendo se stesso alla fragilità della vita, alla lacerabilità del corpo. Il suo personaggio è bagnato da una monocromia macchiata dalle tracce ematiche di un doloroso soffrire: il rosso del sangue che sgorga fuori dal (suo) corpo colpito a morte dal soldato tedesco. Il rosso (come colore altro) è il fragore di un corpo, che vuole essere traccia di colore che si espande nell'immaginario filmico, nelle singole inquadrature, nei frames, nei ventiquattro fotogrammi al secondo. Due anni dopo Giovanni è Seth, il giovane broker immerso nella luce fredda e distaccata del conformismo capitalistico "made in USA" di 1Km da Wall Street di Ben Younger. L'azzurro della fotografia di Enrique Chediak affascina il corpo di Giovanni Ribisi in una dissimulazione onesta. Le tonalità brune, che conferiscono il senso di un piacevole sentire, "dipingono" Seth prigioniero di una "parodistica" giacca di scena. Qui il colore è la sinestesia dell'emotività tonale di un corpo che si dibatte nel tentativo di guarire, di compiere un passo avanti nella costruzione di sé. Lo stesso anno Ribisi è Buddy, meccanico psicolabile, figlio tormentato di una America, rivolta a negare la continuità della propria paternità. Il film è The gift – Il dono di Sam Raimi. Questa volta è la luce di Jamie Anderson a dare consistenza ai corpi filmati. Una luce spoglia, uniforme e implacabile nello svelare e velare i riflessi liquidi di ciò che è (im)possibile vedere. Una luce capace di oscillare tra le trasparenti velature di una impalpabilità diafana e la consistenza terrosa dell'ocra di uno scenario sudista scolpito in una paludosa Georgia (l'humus, la terra con cui è plasmato l'uomo). Una dualità chiastica che attraversa il corpo di Buddy/Giovanni Ribisi. Una luce che vuole far toccare con mano il turbamento di trovarsi fra l'uomo e l'humus, terra fertile e vita visitata dalla morte. Il corpo di Buddy/Ribisi è modellato da questa luce, che bagna lo sguardo, mentre lentamente la sua immagine si forma e si dipana senza mai diventare una forma definita. Un corpo di cui è possibile avvertire l'assenza nella fuggevolezza del filmabile: accedere/eccedere allo "star fermo" di un istante in continuo movimento. Giovanni Ribisi è pronto ad immergersi in una nuova luce e in un nuovo colore, a lasciarsi scorrere nell'immagine tempo come lo sgocciolio dei getti di colore stesi su una tela. Esporre il proprio corpo al continuo sfumare di una gestualità che percorre le immagini.

Dalla fangosa Georgia del Sud degli Stati Uniti alla edenica luminosità della Montepulciano fiorentina. Nel 2002 Giovanni Ribisi recita ancora al fianco di Cate Blanchett (dopo The gift), nel film di Tom Tykwer Heaven, da una sceneggiatura di Kryszof Kieslowski e Kryszof Piesiewicz (la prima del trittico dedicato a Paradiso, Purgatorio e Inferno). In esso è Filippo, un giovane carabiniere torinese, che aiuta a fuggire dal carcere Philippa (Cate Blanchett), un'insegnante di cui si è innamorato, riconosciuta colpevole dell'uccisione di quattro persone per lo scoppio di una bomba. Quelli di Ribisi e di Blanchett sembrano essere un corpo unico, armonioso e colorato, modellato dalle delicate vibrazioni di una gioiosa e ingenua liberazione dai toni liliali propri di chi gioca lietamente con la sua corporalità. Ma di lì a poco il corpo innocente tornerà a farsi corpo confuso nei violenti contrasti cromatici e nella franca intemperanza di carne e sangue, espressa in Basic di John McTiernan. La fotografia di Steva Mason è un affascinante esempio di dissolvenze/sovrimpressioni "coloristiche": un giallo raffreddato con l'azzurro fino a stemperarsi in una nota verdastra con un effetto di infermità e di fragilità, coloriture che il corpo di Ribisi sa catturare e farne viso forma figura. Giovanni Ribisi negli ultimi anni ha continuato a impregnare i suoi personaggi di diverse gradazioni tonali, interpretando Junior in Ritorno a Cold Mountain, John in Lost in traslation, Dex in Sky Captain and the world of tomorrow, altre tracce tangibili dell'incontro del "colore" con i corpi, del corpo che si incarna nel "colore", nella variabile monocromia del corpo/cinema. Ci piace pensare che Il volo della Fenice (l'ultimo film interpretato) si chiuda con una dissolvenza in bianco e concludere, quanto scritto, come abbiamo cominciato, citando ancora Kandiskij: "Nel bianco tutti i colori sono spariti, il bianco è un grande silenzio di possibilità, come il nulla prima della nascita delle cose".

 


da Sentieri selvaggi


"Il cinema deve comunicare emozioni. E queste possono anche dare fastidio a qualcuno." Intervista a Giovanni Ribisi.

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