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Girl, di Shu Qi

L’attrice taiwanese esordisce con un coming-of-age altamente autoriflessivo: in cui indaga, con una sensibilità da veterana, le ombre che il passato genera sul (suo) presente. VENEZIA82. Concorso

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C’è una scena, nel prologo di Girl, che appare assolutamente esplicativa dei processi mentali/emotivi della protagonista del film, e della drammatica condizione esistenziale in cui versa. All’inizio della sequenza la vediamo percorrere uno stretto cunicolo infossato nell’erba, finché non incontra un muro di pietra, oltre cui non è (ancora) possibile procedere. L’aria risulta quasi rarefatta, e nel momento in cui la giovane ragazza tenta di guardare al di là dell’ostacolo, l’immagine si popola improvvisamente di tre figure femminili, inquadrate mentre consumano una ciotola di noodles. L’inquadratura, se osservata singolarmente, non presenta alcuna peculiarità o anomalia particolare: ma con un semplice stacco di montaggio, con cui la leggendaria attrice taiwanese Shu Qi (qui all’esordio dietro la macchina da presa) frappone il terzetto familiare al volto semi-nascosto della protagonista, ecco che il raccordo tra le due immagini dà vita ad una visione dissonante, se non addirittura onirica. I fasci di luce che irradiano le tre “commensali” entrano in pieno contrasto con la freddezza tonale con la quale la cineasta ci mostra la giovane Hsiao Lin: proprio perché quel riquadro, appartenente (chissà?) ad un universo solo sognato e più affine al mondo interiore della ragazzina (dove albergano le sue aspirazioni più recondite) le rammenta, con la sua luminescenza, il buio in cui la vita familiare l’ha brutalmente ingabbiata.

Partire da una scena così microscopica per poter sondare in profondità le istanze di Girl, può sembrare sì pretestuoso o arbitrario, ma solo se non si considerano le strategie con cui Shu Qi vuole mettere ora in moto le classiche dinamiche di maturazione del coming-of-age: atte qui ad obliterare la gabbia di odio e risentimento in cui si muove l’infanzia di una bambina che guarda al mondo degli adulti (quello in cui dovrà prima o poi approdare) con estremo terrore, e verso cui cercherà di creare un ponte senza l’aiuto genitoriale e in maniera totalmente autonoma – e anche un po’ anarchica. Nelle mura domestiche dove vive Hsiao Lin (Bai Xiao-Ying) aleggia ogni giorno un opprimente clima di tensione. Il padre trascorre le giornate ad ubriacarsi e a molestare fisicamente tutti coloro che ha attorno, generando nei suoi affetti un malessere apparentemente impossibile sia da verbalizzare che da metabolizzare. L’unica àncora di salvezza per la giovane protagonista è una sua compagna di classe, la cui “maturità” la spinge a commettere delle innocenti azioni di rottura, con cui aspira a trovare una via verso la catarsi.

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È attraverso questo particolare approccio alle grammatiche del racconto di formazione che la regista di Girl fa passare le varie tappe evolutive della ragazzina, senza mai forzare il suo processo di maturazione, o velocizzarne i tempi di crescita. Non sorprende, allora, che l’obliterazione della gabbia in cui è drammaticamente cristallizzata la sua infanzia, transiti per mezzo di piccoli gesti di trasgressione, caricati dalla cineasta taiwanese di una profonda connotazione lenitiva. Agli occhi di Hsiao Lin, perciò, basta rifiutare il cibo preparatole dalla madre anaffettiva, oppure farsi truccare il volto dall’amica lontano dallo sguardo degli adulti, per creare un nuovo percorso di vita, che la porterà, dopo tanti struggimenti, ad oltrepassare finalmente quel muro traumatico, e ad individuare il sentiero che la condurrà verso un orizzonte inedito. In cui spera che emergano anche quei sentimenti virtuosi ed edificanti apparsi a lei alieni per tutta la sua giovane esistenza.

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Ma ciò che permette a Girl di separarsi dal vasto corpus di opere giovanili, su cui molte cinematografie estremo-orientali (compresa quella taiwanese) strutturano le loro fondamenta, è l’autoriflessività che permea quasi ogni immagine del film. Non solo Nühai materializza sullo schermo una rielaborazione, in termini terapeutici, della gioventù della celebre attrice: ma rievoca, in molte sue inquadrature, il respiro del cinema di colui che ha legittimato artisticamente Shu Qi, permettendole di diventare l’icona che è adesso: ovvero Hou Hsiao-hsien. Dalle micro-citazioni ai film del maestro (il palloncino rosso mutuato da Flight of the Red Balloon o le motociclette di Goodbye, South Goodbye) fino ai registri contemplativi di Dust in the Wind e Millennium Mambo (di cui è ripresa una delle scene in discoteca) la poetica del mentore rivive nel debutto registico della sua attrice più amata. A dimostrazione di quanto i trascorsi passati, sia artistici che biografici, abbiano illustrato a Shu Qi le formule con cui raccontare la propria storia, radicandola all’immagine della sua protagonista: per la quale è sempre l’onda lunga del trauma infantile, una volta approdata all’età adulta, a definire i dolori del presente. Immerso in un ciclo di risentimento e disperazione che la spinge ad ascoltare, in silenzio, gli echi di un passato che non muore mai.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.6
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Il voto dei lettori
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