GLI OCCHI STANCHI. Monica Rametta racconta Corso Salani

“La struttura del finto documentario aiuta ad entrare nella vita di una persona e in un certo senso ci consente di appropriarcene”: la sceneggiatrice di Corso Salani lo ricorda per Sentieri Selvaggi

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Monica Rametta presenta Gli Occhi Stanchi di Corso Salani all’interno del nostro nuovo ciclo L’unico cineasta felicese oggi fosse qui, racconta la sceneggiatrice, avrebbe detto che i suoi film nascevano sempre da una sua esigenza, un suo bisogno di fare cinema in modo personale, non per fare mercato. Per lui non c’era differenza tra il suo cinema e la sua vita, tutte le idee venivano da lì, da quello che viveva. Il suo modo di girare, che era estremamente povero nel budget, corrispondeva al suo desiderio di sentirsi libero, di non dover scendere ad alcun tipo di compromessi.
Al festival di Trieste è stato proiettato quest’anno il primo film che abbiamo fatto insieme: Voci d’Europa, un’opera di grande valenza, soprattutto perché nel primo episodio di venti minuti c’è già tutto quello che poi Corso ha fatto durante la sua vita di cineasta – nelle ricerche, nei modi, ma soprattutto il nucleo della sua narrativa e della sua produttività. In quel film c’era tutto ciò che lui cercava. Eravamo solo in cinque a girare Voci d’Europa, durante la sua carriera, ad esempio con Occidente, ha avuto occasione di lavorare con delle troupe vere e proprie, per poi ridurre di nuovo la squadra ed infine rimanere da solo. Il suo ultimo film lo ha girato da solo, Corso ha avuto un percorso quasi al contrario: di solito si inizia con poche persone al fianco e poi si cresce, lui invece è voluto rimanere al suo modo di fare cinema, senza essere influenzato.
Ora che i mezzi lo consentono, continua e si espande il dibattito sul confine tra documentario e finzione, una riflessione che tutto il cinema di Salani porta avanti, compreso il processo di scrittura de Gli Occhi Stanchi.
Dell’aver scritto questo film a me è rimasto un ricordo molto strano, è stata una novità assoluta. La sua idea era chiara, ovvero quella di una troupe che decide di seguire una ragazza polacca nel suo viaggio verso casa, mentre lei avrebbe raccontato quella che era stata la sua vita. E’ stata un’esperienza particolare quella della scrittura de Gli Occhi stanchi, perché non c’erano altri esempi che rispecchiassero l’idea di Corso, quindi il nostro modo di scrivere e di strutturare è stato decisamente sperimentale. Abbiamo scritto sempre insieme, aiutandoci a vicenda, tutti i monologhi dell’attrice servivano a rappresentare la psicologia della persona che volevamo raccontare. Mi ricordo della capacità sorprendente di Corso nel rappresentare la psicologia dei personaggi femminili, che erano quelli che più gli interessavano, lui si sentiva e diveniva parte di loro.

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Possiamo dire che Gli occhi stanchi non è un documentario, è qualcosa di diverso, che restituisce una grossa verità di quel personaggio, lascia che lo spettatore entri in intimità con lei.
Attrice e personaggio si scambiano sempre i ruoli, per questo ci serviva la persona adatta.
La ricerca dell’attrice l’abbiamo fatta insieme, siamo andati a Varsavia in Polonia per tenere i provini. La nostra ragazza l’abbiamo trovata non appena l’abbiamo vista, quando Agnieszka Czekanska è entrata per fare il provino abbiamo subito avuto la sensazione che sarebbe stata quella giusta. Sicuramente era lei. Non c’erano dei riferimenti, era una ricerca che partiva dal nulla e noi dovevamo ingegnarci.
La struttura della scrittura di Gli occhi stanchi non è sicuramente una struttura canonica, di quelle che si imparano in una scuola di cinema. Un po’ tutto il cinema di Corso ha una struttura non convenzionale, frutto di un lavoro fatto in libertà, che nasce dalla sua voglia di raccontare le cose nel proprio modo – nel caso di Gli occhi stanchi, per il desiderio di entrare in intimità e in stretto contatto con questo personaggio. Un finto documentario aiuta sicuramente ad entrare nella vita di una persona e in un certo senso ci consente di appropriarcene.

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