“Gli sfiorati”, di Matteo Rovere


Gli Sfiorati non è dirompente allo stesso livello di quanto lo fosse lo sfrenato Un gioco da ragazze, però è ancora una volta un viaggio di Rovere sul labile delirio dell'ossessione e sulle sue conseguenze sui corpi. Il film si muove tutto nella sorta di nebbioso dormiveglia nel quale si costringe a vivere senza sosta il protagonista, in giro giorno e notte per una Roma dalla consistenza alchemica, una geografia capitolina dai contorni sfuggenti, fascinosamente fuori fuoco, probabilmente figlia soprattutto dello sceneggiatore Francesco Piccolo

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Matteo Rovere ha uno sguardo interessante, che non ha paura di esagerare, fa un cinema che ha un suo carattere deciso e una certa visionarietà anche spinta e non sempre dai risultati felici, ma nel panorama italico è probabilmente difficile trovare un giovane regista altrettanto incosciente o contemporaneamente così consapevole da accettare di firmare una seconda opera come questa. Gli Sfiorati non è dirompente allo stesso livello di quanto lo fosse lo sfrenato Un gioco da ragazze, però è ancora una volta un viaggio sul labile delirio dell'ossessione e sulle sue conseguenze sui corpi: ecco, Rovere è uno dei pochi cineasti italiani di nuova generazione che sembra prestare attenzione al lavoro sui corpi dei propri personaggi, e dei propri attori (da qui non a caso il lucido utilizzo di una figura iconica potentissima com'è Asia Argento).

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Il materiale è tratto dal Sandro Veronesi che aveva dato possibilità a Grimaldi di girare già una sorta di doppio sogno quasi “ferreriano” (il mare, il sesso…) con Caos Calmo, e anche stavolta il film si muove tutto sul confine tra realtà e onirismo, soprattutto nella sorta di nebbioso dormiveglia nel quale si costringe a vivere senza sosta il protagonista Méte (Andrea Bosca), che cerca in tutti i modi compagnia e occupazioni in giro per Roma per tutto il giorno e la notte pur di non tornare a casa a dormire. Nell'appartamento che occupa (non suo, ma della compagna del padre) infatti si è trasferita la conturbante sorellastra Belinda (Miriam Giovanelli), che fa una vita da reclusa senza mai mettere il piede fuori casa, e Méte teme di cedere alle pulsioni erotiche fortissime che la ragazza gli trasmette. E dunque si ritrova a vagare come un cane senza padrone, a guardare i crepuscoli, le mattine su Roma, come i primi atti della Dopostoria. E la sorella Belinda sempre più spesso lo visita nei suoi sogni ad occhi aperti, di volta in volta più audaci e mostruosamente proibiti. Qua appare fondamentale il lavoro di adattamento compiuto in sceneggiatura da Francesco Piccolo (con Laura Paolucci e lo stesso Rovere), che disegna una geografia capitolina dai contorni sfuggenti, fascinosamente fuori fuoco, fatta di cornettari aperti tutta la notte, chioschetti con i tavolini e le sedie impilate, vialoni deserti del centro che all'alba paiono vivere di luce fluorescente, feste in discoteche da vip e loft vista fori imperiali: una città che perde progressivamente la verosimiglianza “altolocata” per trasformarsi nell'erratico purgatorio di questa anima in pena, che vive in un flusso simile a quello degli improbabili documentari in loop senza sosta e senza pause delle programmazioni dei canali satellitari, di cui Méte è grande appassionato..

E Vladan Radovic, che fu sorprendente direttore della fotografia soprattutto in Sonètaula di Mereu, intuisce subito la consistenza alchemica (non a caso il protagonista è un grafologo, dunque esperto nella decifrazione dei codici…) della Roma di Rovere, e risponde con sequenze sospese e galleggianti: il riferimento centrale è quello alla Porta Magica di Piazza Vittorio, monumento esoterico di fine 1600 attraversando il quale si entrerebbe in una dimensione parallela. Quando Méte lo racconta alla ragazza che sta accompagnando in tram, lei gli sbotta di risposta: “ma che ce stai a provà?”. Ecco, questa tendenza alla sdrammatizzazione paradossalmente è l'elemento meno interessante dell'opera (Popolizio è un coatto arricchito sopraffino ma davvero (di) troppo), e la parodia del finale con canzone pop intonata sguaiatamente in coro da famiglia riunita in abitacolo di automobile (i riferimenti a un certo cinema italiano – e a un certo autore, padre di tutti gli "sfiorati" – appaiono evidenti…) magari va pure a segno, ma è decisamente un'idea sbagliata per chiudere questo film.

 

Titolo originale: id.
Regia: Matteo Rovere
Interpreti: Andrea Bosca, Miriam Giovanelli, Claudio Santamaria, Michele Riondino, Asia Argento, Massimo Popolizio, Aitana Sánchez-Gijón, Chiara Brunamonti, Ugo De Cesare
Origine: Italia, 2012
Distribuzione: Fandango
Durata: 111'

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    Un commento

    • dirompente 'un gioco da ragazze'? Ma chi le scrive le recensioni qui il cugino di Rovere? Io mi ricordavo gente seria su sentieri selvaggi, peccato