God Save Kevin: "La rapina", il film punk di Kevin Costner

“La rapina” è un volgarissimo film anarcopunk. Tanto folle e sopra le righe quanto intimo e segreto. Tanto urlato, volgare e arrogante, quanto fiero, irriducibile al bon ton ipocrita dilagante a Hollywood

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Bisogna prestare attenzione ai titoli di testa di “La rapina” (anche se l’originale “3000 Miles to Graceland” suona infinitamente meglio). Due enormi scorpioni digitali si affrontano all’ultimo sangue in stile “Celebrity Death Match”. Se non si ama un certo tipo di cinema americano non accade nulla e per quanto il richiamo possa sembrare sopra le righe e fracassone bisogna prestargli attenzione. Scorpioni, Peckinpah. Ricordate l’incipit de “Il mucchio selvaggio”? I ragazzini che torturano gli scorpioni con le formiche? L’umano ridotto all’essenziale delle motivazioni animali? Tutto il cinema americano più interessante si è confrontato con questa lezione. Certo: non basta uno scorpione (e nemmeno due) per fare Peckinpah ma qualcosa scatta…
Deserto: Kurt Russell, ancora Elvis, after all these years. Poi, Kevin: sempre “metteur en scene” di se stesso. Corpo eccedente, transgenerico, transcinematografico. Un rapina, un casino, ma per fortuna Soderbergh non c’entra niente. Poi tutto va male, e il contacadaveri impazzisce. Ma nemmeno Tarantino c’entra qualcosa.
E allora cos’è dunque questo “3000 Miles to Graceland” sbeffeggiato dalla critica perbenista come la prova definitiva della fine ingloriosa di Kevin Costner? La rapina è un volgarissimo film anarcopunk. Tanto folle e sopra le righe quanto intimo e segreto. Tanto urlato, volgare e arrogante, quanto fiero, irriducibile al bon ton ipocrita dilagante a Hollywood. Da perfetto regista di se stesso, Costner mette a morte la sua immagine per meglio custodirla. Per sottrarla a quanti sono sempre più convinti che “Balla coi lupi” sia stato il film del caso, una meravigliosa quanto fortuita combinazione irripetibile. E invece Kevin, con un splendido e ironico gesto autodistruttivo, immola la propria immagine, la fa esplodere in mille frammenti contraddittori e non guarda in faccia a nessuno. “3000 Miles to Graceland” è un seppuku divistico, un auto da fè, se preferite. Demian Lichtenstein probabilmente è il peggior regista del mondo ma non gira peggio di un qualsiasi Oliver Stone, Tony Scott, Roger Donaldson o Louis Mandoki. Costretto a muoversi in incognito dopo il flop di “The Postman”, Costner, capace di scegliersi con raro acume i registi da cui deve essere diretto (o che deve dirigere…), Kevin abita il non stile di Lichtenstein, un insieme terrificante di luoghi comuni visivi e sonori, come se questo fosse il precipitato stesso del peggio di Hollywood. Così è se vi pare… o se preferite this is what you want this is what you get e comunque this is not a love song…
Sterile e presuntuoso narcisismo masochista di un divo giunto al capolinea? Oh mon Dieu! Ma allora non capite proprio niente di cinema, smettete pure di leggere, su da bravi…

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Kevin Costner, uno dei pochi adepti della politica degli attori a Hollywood (gli altri sono Tom Cruise, Bruce Willis, Schwarzy, Sly forse George Clooney…), privo ormai del suo potere d’acquisto divistico, l’attore più saldamente ancorato ai valori classici del cinema americano, si trova a vagare come un alieno in un paesaggio divistico irriconoscibile. “La rapina” costituisce il suo tentativo di restituirsi a una paradossale indecorosa, oltraggiosa visibilità assecondando per eccesso le leggi dell’apparire hollywoodiano. Ma c’è dell’altro: non si tratta infatti di cavalcare la tigre del post-tarantinismo quanto di operare un crash di forme e linguaggi. L’apparire così eccessivo costituisce di fatto uno svanire, un rendersi invisibile. Cosa resta da vedere lì dove tutto si offre oscenamente alla vista? Nulla. Nient’altro che il nulla. E Kevin è proprio questo nulla che sceglie di abitare, assecondato dalla straordinaria ombra riflettente di Kurt Russell che si offre come il doppio positivo di questo carnascialesco rito di morte. Fingendo, perché di questo si tratta, di offrirsi in pasto a tutti, Kevin Costner scompare. Vola in cielo come Elvis, potremmo dire… In un film che inizia con uno straordinario omaggio peckinpahiano, il tempo di Pike Bishop è decisamente finito, e dove peckinpahianamente Kevin investe un lupo (ricordate la testa di cane nel frigo in “Ostermann Weekend”?), la pira funeraria costneriana arde di una luce folle e tenera. Cosa resta del cinema americano oggi? Niente. E cosa resta a un corpo orfano del linguaggio materno/paterno se non emulare pateticamente James Cagney (“White Heat”) e William Holden? Niente, se non morire in un cesso crivellato di colpi. E, pensate un po’, mentre Elvis canta Frank Sinatra, “My Way”, quella stessa canzone stroppiata da un Sid Vicious strafatto di eroina…E si va a morte così, come parodia e non omaggio cinefilo, si muore in un cesso perché è già morto il cinema, e da molto, ed è ora che gente come Costner muoia anch’essa per svelare l’inganno di un cinema americano che ha tradito, si muore così banalmente, immersi in un fragore d’inferno, perché “la morte, ch’era il vostro coraggio, può esservi tolta come un bene” (Cesare Pavese, “Dialoghi con Leucò”).
Elvis dunque, del quale come direbbe Chuck D. non c’è mai fregato nulla, diventa il calco di un’assenza, il segno della ricomposizione impossibile tra l’immagine e la sua riproduzione. I simulacri hanno vinto. Kevin Costner però ha dato battaglia fino alla fine prima di saltare in aria con tutta la baracca. Di questo gli va dato atto. E lo ha fatto a modo suo.
Certo, sarebbe facile ironizzare sullo scandalo suscitato dalla violenza del film. Sarebbe facile fingere di godere come degli idioti dell’idiozia di questo film. E sarebbe ancora più facile rispedire l’idiozia al mittente ma preferiamo tenercela… In questa idiozia c’è del cinema che abbiamo amato e che orgogliosamente esce allo scoperto per graffiare ancora. Trash, pulp? Ma che dite?!? Non sentite odore di Belushi? Non sentite odore di caos? Proprio non riconoscete il richiamo della giungla? Una volta si diceva, punk’s not dead… Beh, mettendosi a morte Kevin (cosa che accade dai tempi di “Balla coi lupi”…) risorge ancora una volta… ma questa volta, “helas”, la carne è triste perché tanto abbiamo già letto tutto il libro…
“La rapina” è un film da difendere, certo. Ma in quanti possiamo legittimamente presentarci allo showdown finale? Pochi, siamo pochi… E il deserto chiama ancora…

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    Un commento

    • ..molto semplicemente e senza tante retoriche ed astrazioni del caso, a me è piaciuto.