#GoldenGlobes2020 – Resistere a Netflix

Il mondo hollywoodiano sembra aver voluto mandare un preciso messaggio alla piattaforma e casa di produzione, sopratutto per quanto riguarda i film: meglio la sala dello streaming.

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Che a Hollywood fosse in atto una piccola guerra tra case di produzione, piattaforme e politiche di mercato era chiaro già lo scorso anno, eppure chissà cosa avrà pensato Reed Hasting, cofondatore e Ceo di Netflix, al termine della 77° edizione dei Golden Globe. Iniziata con l’auspicio di un atteso trionfo, la serata di Los Angeles si è presto trasformata in un incubo per la società fondata in California nel 1997 e soprattutto in un drammatico ridimensionamento sulle sue velleità “cinematografiche”. Questa era infatti la stagione dei grandi investimenti sui film, con almeno quattro titoli in orbita premio. Niente da fare. L’imperativo della Hollywood Foreign Press per quest’anno sembra essere stato resistere a Netflix in ogni categoria o quasi.

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Chiaramente la notizia più rumorosa è la debacle di The Irishman. Il gangster movie di 210′, costato 150 milioni di dollari, non ha portato a casa alcun riconoscimento e appare a questo punto fortemente penalizzato nella corsa agli Academy Award che verranno assegnati il prossimo 9 febbraio. Può darsi che Martin Scorsese abbia improvvisamente pagato le sue dichiarazioni anti-Marvel, molto controverse e divisive all’interno del mondo hollywoodiano. Oppure semplicemente The Irishman è un film troppo esteso, grigio e crepuscolare per piacere alla maggior parte dei giurati. Ma certo per Netflix e per le sue dispendiose strategie di comunicazione i mancati riconoscimenti a Scorsese, Noah Baumbach – Storia di un matrimonio ha ottenuto solo il premio come non protagonista a Laura Dern – Dolemite is my name e The Two Popes sono stati una mazzata che sa tanto di messaggio “politico”: meglio uscire in sala che andare in streaming.

Da questo punto di vista non appare casuale, a prescindere dai meriti delle opere in questione, i titoli su cui i Golden Globe hanno deciso di puntare. Sia 1917, lo spettacolare film sulla Prima Guerra mondiale diretto da Sam Mendes vincitore nella categoria dramma e regia, sia C’era una volta a…Hollywood, miglior film commedia/musical, sceneggiatura e attore non protagonista, appartengono a un’idea di cinema bigger than life, iper-prodotta, distribuita su grande schermo nelle modalità industriali “convenzionali”.

Anche in ambito seriale le cose sono andate meno bene del solito per Netflix, sebbene i riconoscimenti a Fleabag (Amazon) e a Chernobyl (HBO) – due premi ciascuno e già trionfatori agli Emmy Award nel settembre scorso – erano annunciati. Più sorprendente forse il doppio riconoscimento a Succession (HBO), l’affresco su famiglia, business e multinazionali prodotto da Adam McKay e Will Ferrell.

Mai come quest’anno i Golden Globe sono stati l’occasione per riflettere sulla politica e sull’attualità. Gli australiani Russell Crowe, attraverso un messaggio a distanza, e Cate Blanchett hanno espresso commozione e solidarietà verso la loro terra falcidiata dagli incendi. Patricia Arquette si è apertamente scagliata contro Trump e Michelle Williams si è rivolta all’elettorato femminile per cambiare il mondo. Eppure ogni anno che passa la sarabanda di Hollywood appare accessoria e impotente di fronte alle catastrofi (reali e temute) del nostro tempo. Come fosse una scintillante bolla sospesa da qualche parte nella costellazione occidentale, condannata a essere prigioniera dei propri riti e dei sensi di colpa.

Alla fine a stagliarsi nell’inconscio di una serata opaca sono forse le parole di Joaquin Phoenix, miglior attore per Joker, che dopo aver bofonchiato riflessioni sparse su ecologia e agricoltura (!) ha ammesso confusamente: “Non siamo qui per competere l’uno con l’altro, ma per pubblicità. Dobbiamo promuovere i nostri film”. Fine della storia.

That’s entertainment.

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