Good American Family, di Katie Robbins
Con i suoi 8 episodi di intense interpretazioni e giochi continui con lo spettatore, questa serie con Ellen Pompeo e Mark Duplass è un imbroglio che dice la verità. Su Disney+

Good American Family è una serie tv prodotta da 20th Television e basata sulla vicenda reale di Natalia Grace, avvenuta negli USA a partire dal 2010 e tuttora senza una vera risoluzione giudiziaria.
La storia, perciò, è realmente forte: nel 2010 Kristine Barnett e suo marito Michael, già genitori di tre bambini, di cui uno autistico, prendono in affidamento Natalia Grace, una bambina Ucraina affetta da una particolare forma di nanismo. All’epoca dell’adozione, sui documenti di Natalia c’è scritto che ha 7 anni, ma ben presto alcuni fatti inquietanti convincono senza ombra di dubbio Kristine che Natalia è un’adulta che sta mettendo in atto una frode. Sicuri di questo e spinti dalla necessità di salvare la propria famiglia, i due genitori riescono a cambiare legalmente l’età di Natalia da 8 a 22 anni e la abbandonano in un appartamento, lasciandola a prendersi cura di sé stessa.
Così come è difficile scrivere questa sinossi senza usare termini che sbilancino l’asticella della ragione e del torto verso una delle due fazioni, così Good American Family vuole assolvere al duro compito di raccontare questa vicenda senza prendere posizione. Ma è davvero così?
Partendo dall’inizio, dove per inizio si intende letteralmente la prima immagine che vediamo dopo aver schiacciato play, ci accorgiamo che l’intento è subito dichiarato. In testa a ogni episodio appare un cartello che ci avverte di ciò che stiamo per vedere. L’annuncio esordisce così: La serie rappresenta accuse mosse dai protagonisti in tribunale. Drammatizza versioni contrastanti senza suggerire che sia una la verità assoluta.
Sembra naturale conseguenza che la serie si strutturi dualisticamente in modo netto: nei primi quattro episodi siamo portati a sostenere le ragioni di Kristine, negli ultimi quattro quelli di Natalia. Ma in effetti è molto di più di così, più di una partita di scacchi su schermo in cui non ci sono buoni né cattivi e si aspetta con ansia di stabilire un vincitore. La battaglia di Good American Family è morale, etica, emotiva. Il non prendere posizione non è una scusa, ma un mezzo. E diventa poi proprio quello che la serie racconta. La dualità non è questione solo di punti di vista, è proprio la definizione del fatto che ogni cosa è anche il suo contrario e che ogni verità è anche una bugia. Lungi dall’essere una serie filosofica, Good American Family esprime questo concetto parlando di famiglia e di legge e aderendo al genere thriller psicologico, almeno all’inizio.
E così ogni elemento può essere visto attraverso una doppia lente. Kristine è una donna che ha scelto di dedicare la propria vita al delicato ruolo di madre, adotta bambini con disabilità o autismo ed è fondatrice di un centro nel quale aiuta altri genitori. Una madre che non accetterebbe mai un fallimento. Proprio questa necessità di essere perfetta sono il punto debole di questo personaggio e la sua chiave di lettura. La fessura che ci permette, senza accorgersene, di guardare l’altra parte di lei. Allo stesso modo Michael, amorevole padre e uomo debole, tiene così tanto all’unità familiare che si lascia manipolare da qualunque figura femminile rappresenti un appiglio. Così Natalia, da dolce bambina a essere pericoloso, può incarnare il sogno e l’incubo di ogni genitore.
Good American Family non è solo questione di prospettive, è un viaggio attraverso i personaggi, dentro di loro e poi di nuovo fuori. Tra i banchi di un tribunale dove il concetto di verità è banalmente sospeso dentro regole lontane da quelle della realtà, e nella vita privata di una famiglia americana basata su fragili fondamenta ma che resiste con forza spinta dal desiderio di incarnare uno status. In otto puntate di svolte e cambi di registro Good American Family è un imbroglio per lo spettatore, che si ritrova spaesato nel non sapere più per chi parteggiare, ma riesce a raccontare tante grandi verità. Quella della pressione sociale sulle famiglie americane, quella delle tante vicende giudiziarie minate da processi mediatici potenti, e anche tante verità sulla debolezza dell’essere umano, in cui ogni forza è anche un difetto e il filo su cui cammina la salute mentale diventa sempre più sottile. Sono rintracciabili nella regia suggerimenti a un’instabilità famigliare e mentale con inquadrature “storte”, sguardi in macchina e primi piani insistiti nelle prime quattro puntate, ma poi la regia si asciuga e diventa più drammatica quando l’attenzione è invece su Natalia e sulla sua profonda sofferenza.
Good American Family è sostenuta anche da personaggi potenti e buone interpretazioni. Per prima Ellen Pompeo che vortica su ogni sfumatura caratteriale senza nessuno strappo troppo netto tra una e l’altra: basti notare il nervosismo latente che esprime muovendo continuamente le mani anche in situazioni apparentemente tranquille. La forza espressiva di Mark Duplass nei panni di Michael che è forse il personaggio più vicino allo spettatore nel non sapere a chi rendere conto tanto è confuso. E infine Imogen Faith Reid in uno dei suoi primi ruoli importanti, con un’interpretazione imperscrutabile e intensa riesce a dare al personaggio di Natalia la dolce ambiguità che le era dovuta.
Titolo originale: id.
Creata da: Katie Robbins
Regia: Liz Garbus, Stacie Passon, Seith Mann, Eva Vives, Hannah Fidell, Iain B. MacDonald
Interpreti: Ellen Pompeo; Mark Duplass; Imogen Faith Reid
Distribuzione: Disney+
Durata: 8 x 50′
Origine: USA, 2025