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Good Boy, di Ben Leonberg

Un debutto sorprendente: mescola terrore e tenerezza, reinventando il cinema dell’orrore attraverso gli occhi di un cane. #RoFF20. Film d’apertura di Alice nella Città

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Perché i cani a volte osservano il vuoto? Chi ha avuto la fortuna di convivere con uno di loro certamente se lo sarà chiesto. Chi invece ci vive tuttora senz’altro sta per farlo. È vero: talvolta i cani osservano il vuoto. Ma se quel vuoto fosse un altrove? Se fosse una dimensione ultraterrena, spaventosamente in dialogo con quella degli uomini e solo in parte dei fantasmi? Ben Leonberg, ponendosi i medesimi interrogativi, firma regia e sceneggiatura – quest’ultima realizzata a quattro mani con Alex Cannon – di Good Boy, convincente esordio al lungometraggio divenuto, negli USA e in brevissimo tempo, un vero e proprio caso: sospeso tra cinema sperimentale e nostalgica rivisitazione di un certo filone horror anni ’80. Un po’ Poltergeist e un po’ Pet Sematary. Nel mezzo, The Changeling, Shining e Il sesto senso.

La prospettiva è quella giusta: cinema a misura di cane, pardon, spettatore. Niente POV; piuttosto un’aderenza totale della macchina da presa alla dinamicità instancabile, e ancora alla fisicità buffa ma pur sempre accorta, del cucciolo Indy, un Nova Scotia Duck Tolling Retriever che, come detto poc’anzi, ama a tal punto gli uomini da entrare in contatto con i loro demoni, così da isolarli e scacciarli una volta per tutte. Accanto al “peloso messaggero dei due mondi”, che è a tutti gli effetti il protagonista assoluto del film, c’è Todd (Shane Jensen), un giovane paziente oncologico ormai al termine dei suoi giorni.

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Se è vero che della vita ricorda poco, della morte conosce invece fin troppi particolari. A cominciare da ciò che l’antica e abbandonata casa del nonno, immersa nelle campagne dello stato di New York, ha da offrirgli: spiriti maligni. Tutti sanno che la casa è infestata, primo dei quali Indy. Riuscirà a salvare Todd, nonostante la sua vena pericolosamente – o tragicamente, che dir si voglia – autodistruttiva? Attorno ai due si allungano le ombre degli spaventosi visitatori e, più in generale, il male celato nella casa, il quale va a braccetto con l’addio e le effettive conseguenze d’un amore che, nonostante le complessità dell’animo umano, resiste alla paura. Sarà abbastanza?

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Good Boy, di Ben Leonberg

Ben Leonberg, dopo una lunga serie di cortometraggi – la forma narrativa di questo Good Boy, d’altronde, è la medesima, lo si comprende immediatamente – approda al lungo consapevole d’un materiale e di una scrittura non esattamente colma di dettagli, né tantomeno di potenziali derive. Al punto tale da farsi via via più asciutta e minimale, fino a raggiungere una crudezza d’intenti, linguaggi e scenari capace di rivisitare, e poi accantonare, La casa di Sam Raimi, tornando con merito all’ambiguità filmica e così all’inquietudine profonda: poiché grezza, desolata e ancorata al vecchio mezzo di The Blair Witch Project. Laddove c’era tutto, eppure non c’era niente.

Tornando a Good Boy, sul fatto che Indy ne sia il protagonista indiscusso non vi è alcun dubbio. Eppure, tanto l’antica e malmostosa casa del nonno – la VHS continuamente revisionata da Todd porta con sé una vena inspiegabilmente sinistra e dolorosa, che guarda un po’ a Hooper e un po’ a King – quanto la boscaglia circostante si fanno dominanti: scenari del male che solo l’amore sconfinato di Indy può in qualche modo “risvegliare dal torpore”, rischiarandoli fino a salvarli. In primo piano, dunque, la paura per tutto ciò che è ignoto – la tensione del cucciolo ci avverte per tempo del pericolo imminente, in dialogo coi fantasmi e le ombre senza nome – mentre sullo sfondo quella, tragicamente umana, della malattia terminale, che dapprima divora e poi abbandona, rispetto alla quale sappiamo già tutto, pur augurandoci il contrario.

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Leonberg riduce la questione narrativa all’osso, focalizzandosi sulla forza seduttiva e fantasmatica della fotografia e, ancora, dell’inquadratura, instancabilmente suggestiva e pulsante di maligno, che imprigiona il cucciolo e al tempo stesso lo libera. Indy, infatti, non può confessarci a parole di vedere le persone morte, e Leonberg ne è consapevole; per questo ci gioca, rivolgendo ben più d’una occhiata al cinema di Shyamalan. Lo sguardo del cucciolo però, così carico d’amore e profonda lealtà, parla da sé, svelandoci la verità: la quale, dunque, non appartiene al buio ma alla luce. E questo, forse, fa ancor più paura. Selezionato come film d’apertura alla 23° edizione di Alice nella Città.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.7
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Il voto dei lettori
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